Russi in Italia

I russi sul meridione d’Italia


Il meridione d’Italia – per la difficile accessibilità dei luoghi – non entra subito nel Grand Tour dei russi in Italia, ci si avventurano per mare e tra mille pericoli nel Settecento le prime ambascerie diplomatiche di Pietro il Grande; nel 1833 lo osserva dal mare o dal dorso di un mulo il poeta Vasilij Žukovskij in visita al golfo di Salerno, a Ercolano, Pompei, Sorrento; nel 1835 s’entusiasma da lontano, dal mare, dell’antica repubblica marinara di Amalfi il principe Pëtr Vjazemskij, mentre ne resta deluso l’incisore Fëdor Iordan, amico di Gogol’ e futuro rettore dell’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo: “la vista dal mare è incantevole. Nel regno di Napoli purtroppo accade spesso che città che dal mare sembrano incantevoli non corrispondano alle vostre aspettative, quando scendete a terra: trovate spesso strade strette, sporche e trascurate, puzzolenti, come mi è successo ad Amalfi” (Zapiski rektora i professora Akademii chudožestv Fëdora Ivanoviča Iordana, SPb. 2012, p. 220).

Negli anni Quaranta dell’Ottocento cominciano ad apparire le prime descrizioni particolareggiate di letterati che si cimentano anche con luoghi impervi, spesso alla ricerca di segni della storia greca o romana e del mondo classico: il giornalista Nikolaj Greč, vicino ai circoli decabristi, pubblica nel 1843 a Pietroburgo tre volumi di Lettere del viaggio in Germania, Svizzera e Italia (Pis’ma s dorogi po Germanii, Švejcarii i Italii), nei quali descrive con ampi inserti storici e dettagli architettonici il Regno di Napoli; nel resoconto di un lungo viaggio che lo porta dalla Crimea all’Africa e al sud d’Italia, lo storico e bibliofilo Nikolaj Vsevoložskij fonde ricordi di vita quotidiana a Napoli (la iettatura, i venditori ambulanti di frutti di mare, il passeggio a via Toledo, gli spettacoli del San Carlo e San Carlino) con dettagliate digressioni pittoriche di luoghi (la grotta azzurra di Capri, Pozzuoli, la solfatara, Baia, il capo Miseno); nei Miei ricordi un giovane Fëdor Buslaev, che viene nel 1839 in Italia come istitutore dei figli del conte Sergej Stroganov (diverrà un insigne filologo, linguista, folclorista e membro dell’Accademia imperiale russa), vive per cinque mesi tra Napoli e Ischia e visita i golfi di Napoli e Salerno, segnalandone i tesori d’arte e d’archeologia conservati nei musei di Napoli (F. Buslaev Moi vospominanija, Moskva 1897, cap. XV-XVIII); interessato alla vita popolare e al couleur locale del meridione è lo scrittore Vladimir Jakovlev, che nel volume Italia. Lettere da Venezia, Roma e Napoli (Italija. Pis’ma iz Venecii, Rima i Neapolja, 1855) si inoltra per percorsi meno frequentati del golfo di Salerno, ricercando l’anima dei luoghi e in un paesino della costiera amalfitana si incanta ad ammirare

 

alcune giovinette, che tra allegre canzoni e sonore risate sciacquavano la biancheria in un antico sarcofago; mi accolsero come fossi arrivato dalla luna. Posta la brocca sotto il rivolo cristallino di un getto d’acqua che cadeva in quel bacino ovale intagliato nel granito d’Oriente, alcune di loro sorridendo timidamente mi offrirono di rinfrescarmi. Con antica grazia queste abbronzate bellezze sollevavano la brocca sulla testa, reggendola appena con una mano e tenendo l’altra sul rigoglioso fianco, e si sparpagliavano per le viuzze montane, che a tratti erano scale intagliate nella roccia (V. D. Jakovlev, Italija. Pis’ma iz Venecii, Rima i Neapolja, SPb. 2012, p. 150-151).

 

La bellezza di queste fanciulle (ma anche il gesto di sollevare la brocca sulla testa) evoca alla memoria i ritratti delle popolane italiane dipinte da Karl Brjullov e da molti di quegli artisti che l’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo inviava a studiare in Italia, artisti che sin dall’inizio dell’Ottocento avevano scoperto il sud e lo avevano eretto a loro residenza privilegiata per la luce, i colori, la coinvolgente vita popolare. Penso a Sil’vestr Ščedrin che dal 1825 alla morte vive tra Napoli e Sorrento, dipingendo romantiche vedute della natura mediterranea, abitate da pescatori o cantastorie; a Orest Kiprenskij che a Napoli dipinge Bambini pescatori napoletani (1829, Palazzo Reale, Napoli) e Letture politiche, allusive ai moti degli anni Trenta, rinominate per motivi di censura Lettori di giornali a Napoli (1831, Galleria Tret’jakov, Mosca); a Nikanor Černecov che nel 1842 insieme al fratello Grigorij viaggia da Napoli alla Sicilia, tenendo un diario visivo di luoghi e incontri; all’architetto Aleksandr Brjullov, fratello di Karl, autore dei ritratti di alcuni membri della famiglia del re di Napoli Francesco I e di numerosi paesaggi architettonici di cittadine meridionali.

Leitmotiv delle descrizioni (ma anche di molte rappresentazioni pittoriche) della Campania è una inevitabile fusione di vita e morte, salvezza e distruzione, paradiso e inferno. Nelle plaghe campane per il visitatore russo la vita convive con la morte: accanto al ridente golfo di Napoli le rovine di Pompei e Ercolano, di fronte alle isole fiorite di Capri e Ischia il fumo e la cenere del Vesuvio. Di un’eruzione del vulcano scrive estasiato Gogol’ in una lettera del 30 luglio 1838 alla madre:

 

L’aspetto di Napoli, come penso già sappiate dalle descrizioni e dai racconti, è mirabile. Davanti a me c’è il mare, azzurro come il cielo, intorno monti lilla e rosa, e città. Di fronte a me il Vesuvio. Adesso getta fuori fiamma e fumo. È uno spettacolo stupefacente! Immaginate un grandissimo fuoco d’artificio che non si ferma neanche per un istante. Da molto tempo il vulcano non emetteva tanto fuoco e fumo. Si attende un’eruzione. Rombi, spari e pietre rosse infuocate che volano dalla sua profondità, tutto ciò è un incanto! Fino a qualche giorni fa ci si poteva arrampicare fino al cratere e guardare in quella bocca tremenda. Adesso non si può. Si arriva solo fino a metà; più avanti il caldo è troppo forte e c’e il pericolo di essere raggiunti da qualche pietra scagliata fuori dal cratere (N.V. Gogol’, Polnoe sobranie sočinenij v 14-ti tomach, Moskva 1938-1954, vol. XI, pp. 163-164).

 

Mentre la vivace atmosfera meridionale permea molte opere pittoriche russe del periodo romantico, sulle tracce dei primi visitatori inseriscono il sud tra le mete del loro viaggio italiano diversi scrittori e intellettuali. Si forma così dalla seconda metà dell’Ottocento un nuovo repertorio d’immagini, una realtà filtrata dalla sensibilità dell’osservatore letterato, che fissa nel diario o nei carnets d’appunti aspetti per lui insoliti del sud d’Italia. Turgenev, che tante pagine ha dedicato ai suoi soggiorni italiani, è folgorato dalla bellezza di Capri e ambienta a Sorrento, in un lussuoso albergo sul mare, la scena teatrale Sera a Sorrento (Večer v Sorrento); lo scultore Mark Antokol’skij è colpito dalla bellezza selvaggia di Napoli e dei dintorni; negli anni Settanta il pittore accademico Genrich Semiradskij, famoso per le sue tele storiche dell’antica Grecia e di Roma, intitola Capri un grande quadro, in cui ambienta a Villa Jovis i giochi di alcuni efebi e ricostruisce ambienti e costumi romani con disegno incisivo e vivida stesura cromatica; nel 1889 Michail Nesterov compila a Capri un album con schizzi paesaggistici, ritratti (Giovane napoletano, Ragazzo seduto) e studi che preannunciano il futuro quadro La visione del giovane Bartolomeo (1889-1890, Galleria Tret’jakov, Mosca). Aggiungeranno nel Novecento nuovi tasselli visivi ad Amalfi e Ravello Pavel Muratov e Ivan Bunin , i pittori Konstantin Veščilov, Konstantin Gorbatov, Georgij Lapšin e altri.

Impervia e difficilmente accessibile, la costiera amalfitana rimane a lungo esclusa dagli itinerari di viaggio, anche per il carattere aspro e selvaggio della sua natura: il primo visitatore del Novecento è Maksimilian Vološin, che nel 1901 percorre a piedi la costa da Vietri a Ravello, doppiando valli a strapiombo, rocce scoscese, agavi e cactus: “mi sembrò di vedere il mirabile originale di quel quadro, delle cui copie mi ero innamorato sulla costa sud della Crimea” (M. Vološin, Žurnal putešestvija. Dnevnik moej duši, in Sobranie sočinenij, t. 7/1, Moskva 2006, p. 9). Rievocano in parte la costa d’Amalfi per la gamma colorica e i delicati rilievi dei monti gli acquarelli della Crimea che il poeta dipingerà negli anni successivi.

Nel 1901 visita l’Italia Vasilij Rozanov, provocatorio prosatore, critico e filosofo, che nel viaggio sembra notare solo le affinità con la patria (per dimensione “Salerno è come la nostra Brjansk”, Capri dista da Napoli “non più di Kronštad da Pietroburgo”); interessato a confutare il primato della Chiesa di Roma, a contrapporre l’ortodossia al cattolicesimo, nelle Impressioni italiane (Ital’janskie vpečatlenija, 1909) Rozanov d’improvviso trascura il discorso ideologico e abbandona i suoi preconcetti dopo la visita al golfo di Napoli e alla grotta azzurra di Capri: il ricordo diventa allora visivo, ammaliato, affiora nel riverbero della luce, della roccia, delle onde: accanto all’ingresso della grotta

 

l’acqua del mare aveva già cambiato colore, era diventata ancora più bella, alla sfumatura smeraldo scura si era mischiata molta luce, molto bianco […] non si distinguono all’interno l’uno dall’altro l’acqua, la barca, il soffitto della grotta, hanno perso i loro contorni, come gli uccelli quando solcano le nubi e come portando con sé ciuffi di nebbia diventano simili a lembi di nuvola; così qui l’azzurro si fonde con l’ombra, l’ombra del compagno di barca con la vostra e con le ombre delle altre barche; il soffitto della grotta non vi sembra più tanto basso, la grotta è piccola ed, essendo tutt’intorno poco chiaro, è trasparente, e sembra che questa trasparenza nasconda in sé una profondità senza fondo. È notte, poiché è tagliata fuori, annullata la luce del giorno (all’esterno); la grotta brilla di una sua luce che si riverbera dalle pareti, dal soffitto, soprattutto dall’acqua, una luce riflessa […] gli oggetti hanno perso pesantezza, sono diventati aerei, sembrano aver acquisito la capacità di brillare, d’essere fosforescenti, di riversare dal proprio interno raggi di luce. E che raggi! La grotta brilla, è inondata d’azzurro (V. V. Rozanov, Sredi chudožnikov, in Sobranie sočinenij, Moskva 1994, pp. 91-92).

 

Altrettanto intriganti, sfumate di colori azzurro-violacei, sono le fotografie di Capri che nel 1913 scatta Leonid Andreev: agavi e pini, scogli e sentieri, insenature marine, cespugli, sullo sfondo l’azzurro cobalto del cielo. “Divenne fotografo a circa trent’anni – ricorda la nipote Olga Andreev Carlisle – dopo un lungo tirocinio come pittore. Dopo la morte del padre, avvenuta mentre frequentava ancora la scuola secondaria, aiutò la madre a mantenere i fratelli e le sorelle disegnando e dipingendo ritratti. Continuò a dipingere tutta la vita. Comunque, diversamente dai manoscritti e dalle fotografie, la maggior parte dei suoi dipinti (lavori su carta che si rivelarono ingombranti e delicati), andarono perduti durante l’esilio e la guerra” (O. Andreev Carlisle, Leonid Andreev, fotografo, in R. Davies, Leonid Andreev. Album di famiglia. Ritratti inediti della Russia prerivoluzionaria, Milano 1989, p. 8). Con l’aiuto di una preziosa attrezzatura tedesca, Andreev sperimenta innovative tecniche fotografiche, creando immagini “soffuse di una tale musicalità elegiaca, che richiamavano alla mente i paesaggi di Levitan”, ricorda l’amico critico Kornej Čukovskij. Senza requie immortala sulla lastra fotografica famigliari, amici, fiori, rocce, le verdi acque del golfo di Finlandia, i paesaggi d’Italia, ricercandone il colore e la luce in lunghe esposizioni (le sue prime fotografie stereoscopiche del 1900 sono ancora in bianco e nero). In un alternarsi di differenti stati d’animo, tra sfrenata allegria e inarrestabile tristezza, lo scrittore mostra le sue fotografie agli amici che vanno a trovarlo nella casa in Finlandia (immortala anche loro più volte), recita monologhi sui geniali fratelli Lumière che hanno inventato la fotografia a colori. Tra gli oltre 300 negativi conservati (oggi nell’archivio dell’Università di Leeds) ci sono anche molti autoritratti, quasi un ossessivo ricercare se stesso, rapprendere sulla lastra il proprio conflitto interiore, i segni della progressiva disperazione per il mondo che intorno a lui frana.

L’isola di Capri, sintesi di natura e storia, attira nel 1923 con le vestigia dell’impero romano la futura archeologa Raisa Gurevič che visita insieme al primo marito Georgij Krol’ le rovine di Villa Jovis e – come spesso nel suo diario di viaggio – racconta la storia del passato, animando i personaggi collegati ai luoghi visitati:

 

Il palazzo era evidentemente grandissimo, non una villa suburbana, come si potrebbe immaginare, ma un autentico palazzo imperiale. Almeno questo ci dicono i giganteschi resti delle scuderie che vediamo per primi, avvicinandoci alle rovine (perché poi Tiberio tenesse i cavalli a 300 metri sul livello del mare rimane per me un mistero, ma forse ci teneva asini e muli). Il palazzo doveva essere almeno a due piani: inoltrandoci, scopriamo una sala di forma ovale, al cui centro doveva esserci un bacino o una fontana; proseguiamo per un ampio corridoio e scopriamo un’altra grande sala, nella quale la luce proveniva certo dall’alto, da un’apertura ovale […] Mi turba un pensiero: ha trovato la felicità e la pace l’imperatore astronomo, che aveva scelto Capri per le proprie ricerche e occupazioni? Si narra che avesse riunito intorno a sé i più interessanti studiosi e artisti della sua epoca, che hanno vissuto con lui in quest’isola stupenda. […] Un po’ più in basso del palazzo c’è una torre alta 270 metri, dalla quale si dice che Tiberio gettasse in mare i sudditi ribelli. La voce popolare gli attribuisce anche una crudeltà inumana, ma sarà vero?  (Dnevnik Raisy Gurevič, publ. A. d’Amelia i K. Kumpan, in Archivio russo-italiano XII / Russko-ital’janskij archiv XII, Salerno 2020, pp. 118-120)

 

La leggenda di un Tiberio crudelissimo nella solitudine di Villa Jovis è viva nella Capri novecentesca – come ricorda lo scrittore Ettore Settanni – grazie all’inventiva di “una donna singolare, di rare virtù teatrali”, Carmelina, nata alle falde della collina del palazzo imperiale che metteva in scena le crudeltà dell’imperatore presso il muricciolo del Salto di Tiberio: radunato un mucchietto di pietre, quando i forestieri passavano avviati ai ruderi, li gettava a mare, dicendo “ecco come faceva il feroce Tiberio con chi non gli andava a genio”; col tempo “non ci fu visitatore che non andasse a vedere come Tiberio buttava giù mezza romanità, seguendo con occhi stralunati il roteare del sasso nel vuoto e infine il suo tonfo in mare, tra miriadi di spume d’argento” (E. Settanni, Miti uomini e donne di Capri, Capri 1989, p. 27). Tra le invenzioni di Carmelina c’era anche l’apparizione dell’imperatore, costretto a tornare ogni notte sul “luogo del delitto”; colpito da quella interpretazione, lo scrittore inglese Norman Douglas ammise che il racconto di Carmelina era ben più avvincente della realtà storica.

È invece la natura della costa di Sorrento che nel 1925 lascia un ricordo “capriccioso e ribelle” in Vladislav Chodasevič (Fotografie di Sorrento) dopo una gita in sidecar con il figlio di Gor’kij, Maksim; mentre la visita a Pompei, “sconvolgente nel suo silenzio mortale e lindore”, provoca una riflessione sulla morte e sul destino degli umani nel saggio Pompejskij užas (Terrore pompeiano, 1925): “è deserta, coperta di polvere, petrosa, tutta bruciata dal sole e corrosa dai venti la valle di Pompei; sembra che qui la cenere del vulcano sia penetrata ovunque. Il Vesuvio si erge alto a sinistra, rossiccio scuro; ha la cima nascosta dalle esalazioni, che quasi nere intorno al cratere diventano una nube bianchiccia sparpagliandosi e sfrondandosi verso sud-ovest” (V. F. Chodasevič, Pompejskij užas, “Poslednie novosti”, 10.5.1925).

La Puglia, e soprattutto Bari, è stata nei secoli meta di pellegrinaggio dei viaggiatori russi che si recavano devoti alla tomba di San Nicola, di rado volgendo lo sguardo ai segni della Magna Grecia, ai castelli di Normanni, Svevi e Angioini, ai paesaggi marini o rurali. I ricordi conservati parlano soprattutto della chiesa di San Nicola e della raffigurazione del santo con i paramenti di vescovo latino, lamentano la mancanza di liturgie ortodosse a Bari. Fissa invece la sua attenzione sugli affreschi murali delle chiese rupestri della regione, abitate in passato da anacoreti greci, l’archeologo e storico dell’arte Nikolaj Dmitrievič Protasov (1886–1940), autore di due Lettere dalla Puglia (Pis’ma iz Apulii), nelle quali rintraccia elementi della primitiva arte italiana nell’iconografia delle antiche chiese rupestri pugliesi d’origine bizantina e dettagliatamente ne descrive architettura e affreschi. Attrae lo studioso in particolare la rappresentazione della Fuga in Egitto nella grotta di S. Biagio (XII sec.), riccadi elementi ignoti all’iconografia cristiana:

 

Al centro della scena c’è una Madonna su un cavallo bianco alquanto deforme. Il suo mantello e il vestito superiore sono di colore rosso, quello inferiore azzurro. Di fronte al suo volto c’è un medaglione con un angelo in atteggiamento di indicare la strada. Dinnanzi al cavallo cammina, conducendolo per le briglie, Giacomo, fratello del Signore. È un giovane con una corta tunica ricamata. Sulla spalla porta un bastone con un fagotto e qualcosa che assomiglia ad un pezzo di formaggio. Dietro al cavallo viene S. Giuseppe, un anziano dai corti capelli bianchi, in una semplice veste di lavoro con cintura. Al collo porta un bambino seduto, le cui gambe penzolano dalle spalle. Questi porta un semplice vestitino bianco o celeste. L’aureola è a forma di croce (N. D. Protasov, Lettere dalla Puglia, in G. Cioffari, Viaggiatori russi in Puglia dal ‘600 al primo ‘900, Bari 1991, p. 261).

 

Ad un’altra regione trascurata del meridione, la Calabria, dedica 52 visioni il pittore e incisore Fëdor Brenson, giunto in Italia nel 1924, che della sua scoperta del sud ha lasciato alcuni paesaggi-visioni della Calabria (1929) e un diario di viaggio sulla Puglia (1928).

Rispetto alle città d’arte italiane, rivissute in chiave evocativa dai viaggiatori russi in innumerevoli scritti, fotografie o dipinti, il meridione d’Italia conquista sia per la fisionomia mediterranea (il clima, la natura), correlata ad una vita spensierata e solare, sia per le tracce dell’antico passato (greco, romano, bizantino), che il russo colto riconosce come proprio.

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