Russi in Italia

Tra gli ospiti di Maksim Gor'kij

 

Sui lunghi soggiorni di Gor’kij, esule politico a Capri (1906-1913) e Sorrento (1924-1933), in lotta contro l’assolutismo zarista prima e dissidente dalla dirigenza sovietica poi, si sono versati fiumi d’inchiostro (dai ricordi dei contemporanei agli articoli giornalistici, ai saggi critici), si sono pubblicati innumerevoli libri, scritte dotte o superficiali interpretazioni. La figura dello scrittore, ammirata incondizionatamente durante il primo soggiorno caprese, è stata oggetto di critiche più o meno aspre negli anni della seconda permanenza in Italia, soprattutto da parte di alcuni esponenti dell’emigrazione russa, che ne hanno delineato un ritratto in negativo, malevolo.

In un articolo, edito nel 1918 sul settimanale degli emigrati “La Russia nuova”, Michail Pervuchin, scrittore e giornalista, amico di Tolstoj e Čechov, lo accusa di doppiezza e falsità, lo definisce schiavo del partito, sottomesso a Lenin e Trockij, soprattutto responsabile di ciò che è accaduto in Russia, “della completa rovina, dell’infamia, dell’onta” (Massimo Gorki, “La Russia Nuova”, 13 agosto 1918, p. 2); e nel volume I bolsceviki, aggiunge: “ci sono veramente due Gorki: il Gorki numero uno, e il Gorki numero due, il Gorki gigante e il Gorki pigmeo. Il Gorki numero uno è il romanziere, lo scrittore dalla forza meravigliosa, degno di essere messo accanto a Dostojewski, a Tolstoi. Il Gorki numero due è l’uomo politico, l’uomo di partito, il socialista democratico, il quale si trova sempre in contrasto, in conflitto con il Gorki numero uno” (I bolsceviki, Zanichelli, Bologna 1918, p. 92).

Più sottile e profonda è l’interpretazione di Vladislav Chodasevič, che ha avuto con lui un rapporto personale, legato al quotidiano negli anni di collaborazione alla casa editrice Vsemirnaja literatura e alla rivista “Beseda”, ed è stato suo ospite a Sorrento, dove la loro amicizia si è a poco a poco raffreddata, “senza discussioni, scandali, reciproci rimproveri o offese”:

Era uno degli uomini più testardi che abbia conosciuto, ma anche uno dei più tenaci. Ammiratore strenuo del sogno e dell’inganno dominante, che per la primitività del suo pensiero non seppe mai distinguere dalla più comune e volgare menzogna, un tempo aveva fatto propria la sua immagine ‘ideale’, in parte autentica, in parte immaginaria, di cantore della rivoluzione e del proletariato. E quando la rivoluzione risultò diversa da quella che aveva immaginata, gli fu intollerabile il solo pensiero di perdere questa immagine, di ‘deteriorare la propria biografia’ […] e alla fin fine si vendette, non per soldi, ma per conservare per sé e per gli altri l’illusione principale della sua vita […]. In cambio di tutto ciò la rivoluzione ha preteso da lui, come pretende da tutti, non un onesto lavoro, ma sudditanza e lusinga. È diventato uno schiavo e un adulatore (V.F. Chodasevič, Gor’kij 2, in Nekropol’, Moskva 2001, pp. 375-376).

Questi due differenti Gor’kij emergono nel rapporto che lo scrittore stabilisce durante il soggiorno caprese con il radiobiologo Ivan Ivanovič Manuchin, e negli anni di Sorrento con il poeta Boris Michajlovič Zubakin.

Manuchin, che Gor’kij conosce nel 1913, aveva studiato all’Accademia militare medica di San Pietroburgo con il famoso clinico e fisiologo Sergej Botkin, specializzandosi nel 1911 in immunologia; subito dopo si era trasferito a Parigi per uno stage all’Istituto Pasteur con il biologo e immunologo Il’ja Mečnikov e nei laboratori della Sorbonne con il cardiologo Louis Henri Vaquez; in Francia aveva studiato a livello sperimentale la possibilità di rafforzare gli anticorpi (umani e animali) con l’aiuto di leggere emissioni di raggi roentgen sulla milza. Nella primavera 1913 per la tubercolosi polmonare della moglie, Tat’jana Krundyševskaja (1885–1962), Manuchin decide di non tornare in Russia e trascorrere l’inverno in Italia; qui, sollecitato da conoscenti comuni accetta di applicare il suo metodo di cura anche a Gor’kij, si traferisce a Capri e per circa tre mesi vive a stretto contatto con lo scrittore tra Capri e Napoli, dove si trovavano le apparecchiature radiologiche.

È l’inizio di una sincera e duratura amicizia, che si riverbera nell’aiuto costante datogli dal “cantore della rivoluzione” in difficili periodi esistenziali. Ricordando gli anni italiani, nell’Autobiografia Manuchin descrive l’eterogenea congrega, raccolta intorno a Gor’kij:

Chi scriveva articoli, chi prosa, chi cominciava a pubblicare, chi aveva già pubblicato; c’erano artisti promettenti, inventori, emigranti – schegge della rivoluzione del 1905. Non si può dire che tutti costoro fossero amici di Gor’kij o lottassero con lui per una causa comune. Si erano solo ritrovati là tutti insieme, girovagavano per il giardino o per la casa, si riposavano tra nubi di fumo, giocavano con il figlio di Gor’kij, Maksim, un giovane pigro e divertente (Žizn' i prizvanie doktora I. I. Manuchina, Moskva 2015, pp. 92-93).

Pur nella mutata situazione politica, tra le perquisizioni e i controlli della polizia politica fascista, altrettanto caotica e sovraffollata di famigliari e amici sarà la villa Il Sorito di Sorrento: vi risiedevano il figlio Maksim Alekseevič Peškov con la moglie Nadežda Alekseevna Vvedenskaja e le due bambine nate in Italia Marfa e Dar’ja, il pittore Ivan Nikolaevič Rakickij, “un uomo di salute cagionevole e straordinariamente simpatico”, la segretaria baronessa Marija Ignat’evna Budberg, sospettata dai fascisti di duplice spionaggio a favore dell’URSS e dell’Inghilterra, la moglie Ekaterina Pavlovna Peškova spesso in visita da Mosca, l’infermiera Olimpiada Dmitrievna Čertkova (1878–1951), il suo “ministro delle finanze” e fiduciario nei rapporti con le case editrici straniere Pëtr Petrovič Krjučkov con la moglie, il medico Lev Grigor’evič Levin (1870–1938), responsabile della salute al Cremlino (ACS. PS. PolPol. B. 619. F. Gorki Maxim). Vi apparivano di continuo i numerosi ospiti che risiedevano nelle vicine pensioni: lo scenografo del Teatro alla Scala Nikolaj Benua con la moglie, lo scrittore Andrej Sobol', venuto da Mosca per ristabilirsi dopo un tentativo di suicidio, Pavel Muratov e molti altri. “Famiglie intere – scrive Chodasevič – vivevano a sue spese molto più largamente di lui” che aveva un tenore di vita parco, essenziale (V.F. Chodasevič, Necropoli, Milano 1985, p. 198).

Alla fine del 1913 arrivano le prime notizie positive dei risultati della cura di Manuchin, di cui si rallegrano sinceramente gli amici e l’intelligencija napoletana, preoccupati della salute di Gor’kij. La sua tubercolosi, manifestasi in gioventù, è sconfitta, anche se poi ogni tanto si farà ricordare con tosse, bronchiti e pleuriti.

Quando nel 1920 Manuchin prende la decisione di recarsi in Francia per un lungo periodo di ricerca, è risolutivo per ottenere il visto l’appoggio che gli assicura Gor’kij, scrivendo a Lenin:

Non sono un profano dal punto di vista scientifico, seguo e ho seguito con molta attenzione sia il lavoro teorico di Manuchin che i suoi esperimenti pratici. Sono assolutamente convinto che la sua intuizione sia giusta [...] Manuchin è il tipico studioso poco pratico, ha una sua dirittura morale che gli ha certo procurato molti nemici. Qui i suoi lavori scientifici sono assai ostacolati, la sua pratica clinica sabotata [...] Chiedo di concedergli senz’altro il periodo di ricerca richiesto (Gor’kij i nauka: stat’i, reči, pis’ma, vospominanija, Moskva 1964, p. 111).

È per Manuchin l’inizio di un’esistenza da emigrato. Negli ultimi anni di vita il medico si dedica alla stesura delle memorie, nelle quali conferma il ruolo di Gor’kij nella sua vita e il suo costante sostegno amicale.

Nel rapporto con Boris Zubakin affiora un Gor’kij assai diverso, critico verso il governo bolscevico, nemico di Zinov’ev che lo ha costretto ad emigrare minacciando di arrestare i suoi famigliari: “ammiratore strenuo del sogno”, ma anche rigido difensore della propria biografia rivoluzionaria, come suggerisce Chodasevič. Ne subisce le conseguenze Boris Zubakin, che negli anni Venti aveva frequentato i seminari dello studioso di letteratura Lev Pumpjanskij e del filosofo neokantiano Matvej Kagan, e dopo la chiusura dell’Istituto moscovita di archeologia, in cui insegnava, aveva rivolto il suo interesse all’attività letteraria, iniziato a pubblicare versi in riviste e giornali, preso parte come poeta improvvisatore a pubbliche serate di poesia (risale a questo periodo la sua conoscenza dei poeti simbolisti Ivanov, Belyj, Blok, Brjusov).

Nell’agosto 1927 insieme alla segretaria Anastasija Cvetaeva, Zubakin viene in Italia su invito di Gor’kij e si ferma due mesi a Sorrento. Precede l’arrivo un’intensa, entusiastica corrispondenza dei due scrittori – 26 lettere di Zubakin, 14 lettere di Gor’kij. Durante il soggiorno a Sorrento si manifesta il solco profondo che divide lo scrittore rivoluzionario e il poeta improvvisatore con sfumature mistiche: Gor’kij si disamora, definisce Zubakin “un uomo irrazionale, amorale, incolto. Professa una religione, in cui manca del tutto l’etica. Ora santamente venera Francesco d’Assisi, ora altrettanto santamente Ignazio di Loyola” (Gor’kovskie čtenija, 1953-1957, Moskva 1959, p. 57). Al categorico rifiuto di Gor’kij degli aspetti irrazionali di Zubakin (seguace dei rosacrociani, suggestionato dalla cabala) seguirà dopo il suo rientro in URSS la repressione delle autorità sovietiche, che lo arrestano più volte (1929, 1937) e lo condannano a morte. Di lui dopo la visita a Sorrento non c’è più traccia negli scritti di Gor’kij.

Un’evoluzione simile segue l’amicizia di Gor’kij con Leonid Andreev, amico e sodale degli anni giovanili e stretto collaboratore della casa editrice Znanie, che nel novembre 1907, dopo la morte della moglie per febbre puerperale, si rifugia a Capri da Gor’kij: schiacciato dal dolore, vestito di nero, Andreev risiede in una villa vicina con il neonato Vadim, perso dietro a pensieri di morte. Inizialmente indifferente alle animate discussioni che si svolgono nell’entourage gor’kiano (la rivoluzione, la missione della letteratura, l’impegno politico, gli interrogativi filosofici e religiosi), pian piano in questa atmosfera intellettuale si riavvicina alla scrittura: inizia i drammi Savva, La vita dell’uomo e Anatema, compone in pochi giorni un tormentato Giuda Iscariota, dove affronta la figura del traditore. Nondimeno si allontana dall’ideologia dominante nel circolo gor’kiano e, ispirandosi alla personalità di Pëtr Rutenberg, il socialista rivoluzionario responsabile dell’esecuzione del pope Gapon nel 1906, anche lui rifugiatosi in incognito da Gor’kij, scrive il racconto T’ma (Tenebra), centrato sulla figura di un rivoluzionario che perde la fede nei propri ideali e tradisce i compagni. Nel rielaborare l’episodio Andreev delinea il protagonista come un fanatico crudele che abbandona la lotta politica per darsi alla dissoluzione. Gor’kij respinge la prospettiva metafisica del racconto, accusa l’amico di essersi venduto alle forze della reazione e di aver “distorto l’immagine del rivoluzionario”, i loro rapporti si deteriorano. Quando Andreev ritorna in Italia nel 1910 (in Corsica e a Firenze) non fa visita a Gor’kij, torna a Capri solo nel gennaio 1913 nella speranza di riuscire a spiegare all’amico il proprio stato d’animo, le disillusioni, le scelte, ma non riesce in alcun modo a riannodare il filo della passata amicizia. Tuttavia, anche se da lontano e con sguardo critico, Gor’kij seguirà con attenzione l’evolversi della produzione letteraria di Andreev che continua ad apprezzare.

Per comprendere l’altalena di fervori e disillusioni di Gor’kij, ma anche alcune sue contraddizioni – “il sogno di un’umanità diversa e migliore” e il disincanto per gli accadimenti successivi alla rivoluzione socialista, espresso nei Pensieri intempestivi del 1918-1919 – ci assiste ancora una volta Chodasevič: “tenace ammiratore e creatore di esaltanti imposture, vedeva in ogni disillusione, in ogni bassa verità, una manifestazione del principio metafisico del male”, gli ispirava irritazione “chiunque distruggesse un’illusione, chiunque facesse vacillare l’ottimismo fondato sul sogno” (Chodasevič, Necropoli, cit., pp. 207-208).

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