La fortunosa irruzione degli artisti russi nell’Italia degli anni Venti (nella Casa d’Arte Bragaglia, nei teatri di Roma e Milano) provoca un’eco non irrilevante nel mondo intellettuale italiano, colpito dalle vicende rivoluzionarie di quel paese e attento alle suggestioni lasciate dai Balletti russi di Djagilev, dall’arte russa alle Biennali di Venezia, dall’attività teatrale, coreutica, scenografica di molti esuli; il giudizio sulle loro manifestazioni artistiche è quasi unanimemente positivo, talora entusiasta. Tuttavia non è inutile dar conto anche delle estrose posizioni di uno scrittore italiano che ha ‘immortalato’ con ineffabile e corrosiva ironia alcune messinscene del teatro russo: Marco Praga.
“Alto, incravattato di nero, elegante”, con gli occhi chiari di suo padre, come lo ricorda Renato Simoni, Praga è stato autore di nitide commedie borghesi che indagavano la realtà circostante e il conflitto di coppia, e dal 1919 al 1929 uno spregiudicato critico teatrale (con lo pseudonimo Emmepì) della rivista “L’illustrazione italiana”, edita a Milano da Emilio Treves. “Burbero e leale gentiluomo”, Praga ha difeso strenuamente la drammaturgia italiana, si è impegnato a delimitare il predominio del repertorio teatrale straniero, ha lottato con gli impresari privati nella sfera dell’organizzazione teatrale, ha sempre guardato con diffidenza alla poesia e alla filosofia in teatro; rigoroso e indipendente nei giudizi, ha stilato critiche ben lontane dall’impersonale tono del cronista di mestiere, consentendosi modulazioni saggistiche. Convinto che il critico nelle ‘chiose’ possa cedere alle proprie debolezze, siano esse predilezioni o insofferenze, Praga si concede nelle sue Cronache teatrali divagazioni salaci sugli spettacoli dei drammaturghi russi e stila ‘pezzi di bravura’ mai convenzionali o accomodanti. Sotto molti aspetti le sue critiche più feroci colgono nel segno, mettendo in luce debolezze o incongruenze del testo, banalità delle trame, inutilità di alcune traduzioni, ma soprattutto limiti o genialità di attori e messinscene. Perciò, quando assiste al Teatro Manzoni alle recite del Gruppo praghese del Teatro d’Arte di Mosca nel dicembre 1927, si entusiasma di quel realismo scenico che aveva reso grande l’istituzione nel mondo e resta incantato dagli attori russi “per la loro recitazione, il modo di muoversi sulla scena e i loro gesti, i loro atteggiamenti”, “la naturalezza e la vivezza”, cui tutta la rappresentazione era improntata (M. Praga, Cronache teatrali 1928, Milano 1929, p. 371).
Tra i molti saggi teatrali di Praga si pubblicano alcune pagine dedicate agli scrittori russi, montando nei passaggi salienti i suoi scritti.
In una recensione del 6 aprile 1920 il critico si sofferma sul “signor Ossip Féline (pseudonimo di un ingegnere russo che abita in Italia)”:
Ci ha portato sulla scena – nel suo dramma Per la porta – un ladro. Non ne sentivamo il bisogno. E per di più un ladro brava persona. Ai ladri brave persone non ci credo. Non ce ne furono che nella letteratura, in certa letteratura del buon tempo andato. […] Il ladro pensato e messo sulla scena dal signor Féline è un romantico della più bell’acqua. Vedete un po’: pervenuto, di notte, mediante effrazione, e con scalata del balcone, nella sala da pranzo di una casa borghese, è sorpreso e interrotto nel suo lavoro di sgombero da una bimbetta di sei o sette anni; ché babbo e mamma son fuori, ognuno per conto suo e per ragioni diverse, e la serva dorme della grossa in una stanza più lontana. Scena tra il ladro e la bimbetta: la quale con l’ausilio di una bambola, che il padre cattivo (è un pessimo soggetto, giocatore, baro, truffatore, falsificator di cambiali) le ha fatto a pezzi prima di uscire, commuove il notturno sgombratore e, insomma, lo redime. Dir ciò che seguì mi pare superfluo (M. Praga, Cronache teatrali 1920, Milano 1921, p. 87).
Pur riconoscendo che l’autore ha trattato il tema con “un certo garbo” e misura, nobilitando il genere alla Adolphe D’Ennery, gli suggerisce di mutar strada e dedicare il suo buon gusto e garbo a “una sostanza meno vieta, meno sorpassata, meno di un tempo che fu e che non ha proprio più il diritto di rivivere né nel libro, né sulla scena” (Ivi, pp. 88-98). Nonostante l’auspicio di Praga, Ossip Félyne, drammaturgo, scrittore e traduttore, oltre che ingegnere e aviatore, non muta strada ma si consacra alla scrittura e insieme alla moglie Lia Neanova è autore di un gran numero di pièces teatrali, messe in scena con maggior o minor successo da attori italiani; nel 1930 fonda e dirige la rivista “Teatro per tutti”, pubblicata dalla casa editrice Bietti). Scritte all’inizio in russo e poi direttamente in italiano le opere di Félyne, uno dei pochi scrittori che ha scelto l’Italia come sede definitiva del suo migrare, rivelano nella loro discutibile lingua italiana la forte suggestione di altri testi russi o europei.
Riprendendo le amene pagine di Praga, ci si imbatte in una recensione alla messinscena di Quello che prende gli schiaffi di Leonid Andreev, realizzata l’8 marzo 1924 a Milano dalla compagnia di Annibale Ninchi con Tilde Tenchi nella parte di Consuelo. Nella premessa Andreev è ironicamente definito “un genio” dall’arte “originale e profonda”, il cui “teatro ha aperto dinanzi agli occhi delle nostre menti borghesi degli orizzonti nuovi e sconfinati”.
Dopo di che ci sarà forse permesso di dire e anche di scrivere e di stampare che quest’altro dramma dell’Andreieff dal bel titolo espressivo Quello che prende gli schiaffi, portato alle ribalte italiane dopo Il Pensiero e dopo La vita dell’uomo, è anch’esso esasperato e pretenzioso come i suoi fratelli, ma di essi è ancor più vacuo e banale. Leone Tolstoi giudicò l’arte del suo piccolo compatriota con una frase terribilmente ironica: ‘Questo signore vorrebbe spaventarci’. lo mi accontenterei di dire, più modestamente: ‘Questo signore vorrebbe infìnocchiarci’. E, se i superuomini me lo permettono, aggiungerò che, proprio, per me, non ci riesce. Eccetto Anfissa, che è una costruzione scenica abbastanza solida in cui domina un pensiero originale; tutto il resto di lui che conosciamo mi pare di una vuotaggine presuntuosa e irritante (M. Praga, “Quello che prende gli schiaffi”… che sono ben dati, in Cronache teatrali 1924, Milano 1925, pp. 52-53).
La vicenda descrive il “suicidio morale, l’annientamento della propria personalità” da parte del protagonista, il quale “per suicidarsi moralmente il miglior mezzo gli par quello di farsi clown, di rinunciare al suo nome illustre, di infarinarsi la faccia e di andar nell’arena di un circo a ‘prender gli schiaffi’. L’idea se non fosse stupida sarebbe sublime”. Diva del circo, in cui l’uomo “diventa il buffoncello che prende gli schiaffi” è Consuelo, una cavallerizza “giovanissima e vezzosa, una povera e pura scimunitella”, di cui Quello che prende gli schiaffi s’innamora, “e le racconta storielle di cieli azzurri, di mari verdi e di fate bianche; inframmettendovi considerazioni filosofiche e morali di una banalità desolante”. Le sue storie divertono la fanciulla, ma le considerazioni filosofiche “un po’ la turbano perché non ne comprende nulla, un po’ l’annoiano perché sono lunghe. E quando egli, con quella faccia e in quell’abito da pagliaccio, conclude parlandole d’amore, ella dà in sonore risate”. La vicenda sta “noiosamente insipidamente e in significantemente” a questo punto, allorché appare in scena l’allievo che gli ha rubato le idee e la moglie.
Il poveretto, umile, accasciato, quasi spettrale, si lascia ingiuriare, e racconta la sua miserevole istoria. Nella sua casa non c’è felicità, non c’è pace, e soprattutto non c’è amore. C’è invece il ricordo, ma che ricordo? Lo spettro addirittura, di lui, del marito scomparso. La donna adultera e divorziata e rimaritata non parla che di lui e lo rammenta sempre, e pare lo invochi, di giorno e di notte. E passi per il giorno – dice il poveretto – ma la notte! (Ivi, pp. 54-57).
A questo punto “l’ex grand’uomo diventato pagliaccio da circo perde il lume degli occhi, e, forse per rifarsi di tutti gli schiaffi che si piglia ogni sera, manda via quell’altro a calci bene appioppati”; poi consiglia a Consuelo (pur amandola) di fuggire con l’innamorato.
Tra la prima e la seconda parte dello spettacolo tutta la troupe è convocata per gli addii a Consuelo; si sturano le bottiglie di sciampagna e si brinda alle nozze di domani. Funamboli, cavallerizzi, pagliacci, giocolieri e domatori di pulci son riuniti lì, attorno agli sposi; ognuno dice il suo augurio, parecchi piangono di commozione. Chi rugge e si strugge è quello degli schiaffi (Ivi, p. 59).
Disperato il protagonista avvelena una coppa e la beve insieme a Consuelo: “dolori di pancia, lunga agonia, sproloqui senza senso comune, lei su un divano lui su una sedia, e il coro taciturno ed immobile come in una bella morte d’opera lirica del buon tempo andato”.
Due anni prima nel settembre 1922 Lamberto Picasso aveva impersonato Quello che prende gli schiaffi al Teatro Argentina, e Silvio d’Amico l’aveva definito “il più brutto” tra tutti i drammi tradotti di Andreev, mantenendosi assai cauto “nel largire all’opera sua quei brevetti di capolavori che, all’arte straniera in genere, e a quella russa in specie, si sono regalati e si vanno regalando in quantità da critici anche dotti e illustri” (S. d’Amico, “Quello che prende gli schiaffi” di Andreev, “L’Idea nazionale”, 21 settembre 1922). Nel dicembre dello stesso anno sempre d’Amico aveva stroncato anche Il Pensiero, messo in scena da Ruggero Ruggeri, riconoscendovi problemi in Italia affrontati da Pirandello e definendo “presuntuoso” l’autore: “ci pare che a lui, molto più a proposito che non a Pirandello, si possa rinfacciare l’evidente pecca di far nascere il suo dramma da una fredda astrazione; da un gioco meccanico preordinato, e preordinato per fare colpo” (S. d’Amico, “Il pensiero” di Leonid Andreev, “L’Idea nazionale”, 7 dicembre 1922). Eppure, nonostante le aspre prese di posizione della critica teatrale, Andreev ha una straordinaria fortuna in Italia all’inizio del Novecento, molte sue opere sono tradotte e messe in scena da importanti compagnie teatrali.
In occasione della messa in scena di I giorni della vita, “un altro dei tanti capolavori di cui il teatro russo si gloria”, dato dalla compagnia di Tatiana Pavlova al Teatro Manzoni, Praga con aria sofferente lamenta:
I quattro atti venuti ora alla ribalta sono ancora uno degli innumerevoli quadri di cui è piena la letteratura russa – romanzo e teatro – nei quali ci si presentano tipi e casi, sentimenti e costumi del popolo e della piccola borghesia di quel disgraziato paese; e son cumuli di brutture e di oscenità, di perversità e di ignominie; e non fanno che metterci dinanzi agli occhi beoni e strozzini, intriganti e filosofastri, mezzani e falsari, femmine da marciapiede e madri che vendono le loro figliole. Cosicché, se s’ha da credere ai letterati di lassù, non c’è proprio da stupirsi che la Russia sia andata a finire nel bolscevismo... Anche in questa commedia vediamo degli studenti che cantano e che trincano – tutti dei tipi e tipetti che sappiamo a memoria – e l’azione, sbiadita pur nella vivacità e nella drammaticità che a tratti l’Andrejeff tenta di darle, monotona pur nella varietà dei quadri tra i quali si svolge, s’impernia su uno di quegli studentelli e su una fanciulla di cui egli è innamorato e che un giorno, dopo averci pensato un po’ su, gli confessa di non essere pura, non solo, ma invece, e addirittura, una femminuccia da strada; perché la sua cara mamma l’ha venduta giovinetta, e or le fa da mezzana, e le va alla cerca ogni giorno di un nuovo cliente. È innamorata anche lei, la poverina, e vorrebb’essere soltanto del suo studentello; ma quella mamma è un aguzzino, esercita su di lei un invincibile imperio, ed ella deve, diciam così, piegare la testa. Lo studentello un po’ s’indigna e fugge disperato, un po’ accetta quel ludibrio; e quando si ubriaca, anche lui, si azzuffa col cliente che si trova sottomano e col quale ha cenato; poi di nuovo si calma e pare consenta a rimanere l’amante del cuore […] Ciò che annoia e indispone è il vedere e l’udir della roba che, su per giù, si è già vista e udita o letta cento volte; e, soprattutto, il dover ascoltare un povero dialogo terra terra, in cui non v’è originalità d’idee, scintillìo di parola, profondità di concetti (M. Praga, Cronache teatrali 1927, Milano 1928, pp. 90-93).
Si salva nel giudizio del critico solo l’esecuzione “diligente, attenta, intonata” della compagnia e la parte di Pavlova, “perchè non raffigurando una gran dama, o una donna di mondo, o una nevrastenica, ella comprende che non c’è da mettersi in posa, da sgambettare e da scodinzolare, da rigirare sui tacchi, da assumere atteggiamenti di irresistibile fascinatrice”.
Attira invece la benevolenza di Praga uno scrittore oggi dimenticato anche in patria Vladimir Kirillovič Vinničenko (1880–1951), più uomo di stato che drammaturgo, vissuto sulla riviera ligure negli anni Dieci insieme ad altri emigrati politici, di cui viene tradotto in italiano Menzogne, messo in scena da Emma Gramatica nel novembre 1924 al Teatro Carignano di Torino, “un dramma non tutto bello e convincente, povero in alcune sue parti, possente in altre”, tuttavia “interessante anche nei suoi difetti e nelle sue manchevolezze, opera scaturita da un nobile cervello, da una mente che pensa che cerca e che scruta” (M. Praga, Cronache teatrali 1924, Milano 1925, p. 297). Spinge il critico allo spettacolo di Vinničenko il desiderio di “rivedere e riascoltare Emma Gramatica” che “è sempre un godimento dello spirito”. Come in molti testi russi rappresentati in Italia, la vicenda di Menzogne s’incardina su una vita di coppia con relativi amanti: Natalia vuol bene al marito, un essere debole e malato, “tutto assorto nel lavoro” di ricerca, in cui lo assiste l’amico Ivan, “uomo forte e rozzo”, “assillato dal desiderio frenetico di possederne la moglie”, il quale “sta in agguato ma non osa dichiarar la sua passione. Perché Natalia appare a lui come a tutti una moglie amorevole e fedele. E amorevole lo è”, sa di “essergli indispensabile infermiera e consigliera confortatrice nelle ore di delusione, animatrice”, ma non è fedele, ha un amante, lo studente Anton. Ivan “sempre in agguato” scopre un giorno la “tresca”:
Nascosto, assiste ad un colloquio tra gli amanti, indi riesce a impadronirsi delle lettere che il giovane ha scritto e che la donna, come tutte le donne innamorate, ha serbato. Con quella prova dell’adulterio nelle mani affronta Natalia, le grida la sua passione e il suo desiderio frenetico... La lunga scena che si svolge tra i due è la più bella del dramma. È mossa, è varia, e di una forza drammatica non comune. Emma Gramatica è in essa grandissima attrice, e Camillo Pilotto la seconda da attore di prim’ordine (Ivi, p. 299).
Per placarlo, Natalia mente e gli confessa di amarlo da sempre, ma “l’uomo rozzo, bramoso di vendetta” le risponde che le crederà solo se s’ucciderà per lui. “Qui, veramente, ci si smarrisce. Quell’Ivan ci appare – appare a noi meridionali – eccessivo”; successivamente nello svolgersi del dramma “Ivan non è il mostro di crudeltà che ci apparve nel second’atto, quand’era sotto l’impressione immediata della scoperta dell’adulterio, del tradimento che egli, frenetico di desiderio, giudicava più fatto a suo danno che non del marito”. Nel terzo atto ritorna a Natalia pentito, le rende le lettere dell’amante e brucia una cambiale del marito che “rimasta impagata potrebbe mandarlo alla rovina”.
Natalia si sente invasa da una riconoscenza così grande e così pietosa da vedersi trascinata a buttar le braccia al collo del suo salvatore e a ripetergli, forse sincera stavolta, parole d’amore e di dedizione; e qui tiriamo a indovinare, ché, l’ho detto, il pensiero del Vinnicenko non appare chiaro – ma dopo questa promessa ella si trova nell’inestricabile groviglio. Di tutte le sue menzogne ella si sente la vittima ormai, e le par di doversi immolare. Si suiciderà. E tanto più sente di potersene andare, poi che Andrei ha compiuta la sua scoperta, e la ricchezza è vicina. Ella beve il veleno che Ivan le aveva fornito nel momento dell’odio, nella pazza bramosìa della vendetta. Ma finge un errore: credendo di ingoiare un calmante... Così, Andrei non avrà che da piangere su una crudele disgrazia né potrà mai dubitare di essere stato tradito […] È questo che il Vinnicenko ha voluto dirci? Non lo garantirei. Ma non importa. Lo ripeto, l’opera è ineguale ma forte, è difettosa ma aristocratica, è in qualche punto un po’ oscura ma rivelatrice di un talento drammatico fuor del comune (Ivi, pp. 301-302).
Se Vinničenko si salva per la recitazione di Emma Gramatica, diversa sorte tocca ad un altro drammaturgo russo Sergej Aleksandrovič Najdënov (1868–1922), amico di Čechov, Gor’kij e Bunin nel Circolo letterario moscovita (Moskovskaja literaturnaja sreda). Con il titolo Paccottiglia russa Praga distrugge il suo dramma I figli di Vanjušin (Deti Vanjušina, 1901), recitato da Annibale Betrone e Giulio Donadio (“esecuzione mediocre”):
C’è da chiedersi, veramente, se non sarebbe tempo di smetterla con certa paccottiglia russa o pseudo russa di cui i mercatanti che si dedicano all’importazione dall’estero vanno affliggendo le nostre scene. Vuotati, senza discernimento alcuno, senza sani criteri di scelta, i sacchi che avevano riempiti in vita loro gli scrittori illustri o noti – gli Andrejeff, i Cécof – ci si dà ora alla ricerca affannosa dei sacchetti abbandonati dagli ignoti, dai mediocri ch’ebbe ed ha anche la Russia come li ebbe li ha e li avrà sempre ogni paese dell’orbe terraqueo. Se ne cava fuori della robetta che non ha nessun valore né artistico né letterario né teatrale, nessun significato, né caratteristiche speciali, né almeno il merito per noi di rivelarci aspetti nuovi di quel paese nelle sue costumanze e nella psicologia del suo popolo (M. Praga, Cronache teatrali 1925, Milano 1926, p. 16).
La trama ripercorre l’esistenza del mercante Vanjušin “che tutta la vita ha sgobbato per allevare e dar l’agiatezza a sei figlioli, poi ch’ebbe il gran torto di metterne al mondo mezza dozzina: quattro femmine e due maschi... (È vero, però, che la Russia è vasta e ha sempre bisogno di essere popolata...)”. Dei sei figlioli, tre sono “poco meno che canaglie”, il quarto, ancora studente è uno “scavezzacollo” e le due figlie piccole “danno già i segni d’essere avviate sulla stessa via”.
Per due atti e mezzo assistiamo alle scene e scenate che si svolgono tra codesti esseri disgraziati e svergognati; ai quali sono da aggiungere altri due farabutti: i mariti delle figliole maggiori. […] Un cumulo di brutture e di sconcezze che ci son raccontate con una lentezza fastidiosa e una monotonia esasperante [...] E come finisce? – chiederà forse il più curioso dei lettori. Finisce com’era da immaginare: con la morale della favola [...] E così a metà del terz’atto, dopo che in un’ultima scenata si son trovati di fronte, gli uni contro gli altri, i sei figlioli e i due generi e i due vecchi e le governanti, e per poco non si è venuti, dopo gli insulti le rivelazioni e le accuse, ai pugni e alle pedate, il vecchio Vaniuscin si abbatte affranto, disperato; e il figliolo studente, scapestrato ma non d’animo cattivo, cerca parole tenere e consolatrici per lui, si pente de’ suoi falli, promette di redimersi, e benevolmente gli spiattella quella tale morale della favola che ci aspettavamo: ‘Noi siamo tutti dei malvagi’ [...] Su di che, tra lagrime abbondanti ed abbracci pietosi, si chiude per l’ultima volta il velario (Ivi, pp. 17-19).
Innumerevoli altri potrebbero essere gli esempi degli interventi polemici e appassionati di Marco Praga in difesa di un buon testo drammaturgico (“basato sullo studio delle anime più comuni e dei sentimenti che sono di tutti”), di una recitazione sobria e accurata (il contrario dell’improvvisazione), di un impianto unitario (“il dramma è un edificio” che richiede “fondamenta perché stia ritto”). Per rimanere nella sua linea interpretativa della drammaturgia russa, concludo riprendendo un brano di una delle più estrose recensioni di Alberto Savinio critico teatrale per il settimanale “Omnibus”, diretto da Leo Longanesi, che sostiene l’inesistenza del teatro russo:
Chi scrive, non solo conosce il teatro russo, ma lo ha praticato. Con piena cognizione di causa, affermeremo dunque che il teatro russo non esiste. Che vale un esempio di questo genere? Il teatro russo esiste come riprova del significato etimologico della parola (teatro: ‘cosa da vedere’), esiste come colore, come movimento, come rumore (soprattutto come rumore: è incredibile quanto il teatro russo, questo teatro senza voce né parola, è rumoroso!) […] Il teatro russo è rappresentazione di mimi che urlano, si agitano, ma non parlano. I russi chiamano ‘muti’ gli stranieri, ossia coloro che non parlano russo. A dispetto di questo egocentrismo linguistico, il teatro russo è teatro da sordomuti. La stessa mimica dei mimi russi non è la traduzione in gesti, atteggiamenti, espressioni facciali di un linguaggio, di un discorso, del ritmo, della ‘articolazione mentale’ legata all’articolazione fonetica degli uomini abituati a parlare, quale era la mimica del teatro romano e quale s’immagina una eventuale mimica italiana, ma è una espressione singolare, perché l’attore russo non dispone di altro mezzo di espressione, se non di questo vivo geroglifismo che sono i movimenti del suo corpo […] tutto il teatro russo, drammatico o lirico, tende alla coreografia. Qualunque forma di teatro, e la più prosastica ancora e immota, i russi la voltano in balletto, a quel modo che certuni cominciano un discorso in italiano, e dopo tre parole lo continuano in dialetto. Il testo di una tragedia, di un dramma, di una commedia, laggiù ha tanta importanza quanta da noi un libretto d’opera. Non vive di vita propria. Il testo è mutato, trasformato, allungato, raccorciato, secondo le esigenze della coreografia. Da qui l’importanza del regista nel teatro russo: questo ‘musicatore’, questo ‘coloritore’, questo ‘coreografo’ del testo. Da qui pure la sciatteria del repertorio teatrale, le preferenze dei registi russi per i testi privi d’autorità (fiabe di Gozzi, vecchie operette francesi), e che si lasciano manipolare senza danno (A. Savinio, Palchetti romani, Milano 1982, pp. 113-115).