Il film con cui si inaugura la prima Esposizione d'arte cinematografica di Venezia è proprio un suo film, Il Dottor Jekyll, proiettato la sera del 6 agosto 1932 sulla terrazza del Grand Hotel Excelsior al Lido di Venezia. A proposito della scelta del film come pellicola inaugurale, Dario Sabatello, in un'intervista al conte Volpi, presidente dell'Ente organizzatore della Biennale, scrive:
A due mie domande del criterio con cui saranno distribuiti i premi, e se la scelta di Dottor Jekyll e Mr. Hyde, la forte pellicola girata dall'armeno Mamoulian della Paramount, per l'inaugurazione, abbia un significato speciale, il conte [Volpi, presidente della Biennale] gentilmente risponde, malgrado una ridda di persone lo cerchino, lo salutino e chiaramente dimostrino che desiderano parlare con lui, e dice che alla distribuzione dei premi è tolto qualsiasi carattere antagonistico data in specie la grandiosità degli interessi industriali che si allineano dietro ogni pellicola ed ogni nome; e del resto anche il pubblico sarà chiamato a giudicare. Per la scelta del film inaugurale, che sarà preceduto, come sempre, da un giornale sonoro Luce, si è voluto fare un atto di omaggio all'America, la più grande produttrice di films del mondo (Dario Sabatello, Intervista a Volpi, «Il Tevere», 8 agosto 1932).
I film vengono proiettati in lingua originale e senza sottotitoli, per cui il giorno della proiezione sulla «Gazzetta di Venezia» viene riportata in maniera dettagliata la trama del film, finale compreso (v. La serata inaugurale della I. Esposizione d'arte cinematografica, «Gazzetta di Venezia», 6. agosto 1932, p. IV).
Il discorso inaugurale pronunciato da Antonio Maraini e Giuseppe Volpi Conte di Misurata, rispettivamente segretario generale e presidente della Biennale, viene riportato dalla stampa cittadina e nazionale:
"Eccellenze, Signore e Signori,
Credo che sia la prima volta che una grande esposizione d'arte spalanchi le sue porte al cinematografo. Non che non si siano tenuti per il passato degli spettacoli cinematografici in esposizioni, ma è credo la prima volta che si fa questo con uno spettacolo ben determinato d'arte e allo scopo di dare al cinematografo il posto che finalmente ha conquistato fra tutte le arti. [...] Era da gran tempo desiderio della Biennale di poter accogliere così tutta l'arte accanto a quella figurativa della pittura, della scultura, dell'incisione [...]".
Parla S. E il conte Volpi [presidente della Biennale]
"La Biennale è stata posta dal Governo Fascista all'apice della gerarchia dell'arte; essa deve e vuole e sa pertanto, nel tenere il suo posto esprimere forme nuove [...] L'invito che noi abbiamo lanciato è stato raccolto dai governi, dalle maggiori organizzazioni, dalle maggiori case produttrici del mondo. Vicino a quella dell'Italia avremo la produzione americana, la inglese, la francese, di cui vedo qui l'eminente rappresentante M. Delac, della tedesca, di cui vedo qui l'illustre rappresentante M. Plugge, di quella russa, delle polacca, della cecoslovacca. [...] Voi siete convenuti qui per giudicare dei film, non per sentire troppe lunghe parole. Quindi io non vi dirò nient'altro; vi dirò soltanto che comunque a questi grandi, a questi piccoli uomini, che danno il loro cervello e le loro braccia ogni giorno a questo microcosmo che è l'industria cinematografica del mondo, e ai movimenti di masse immani di uomini e di denaro, noi apriamo, lo ripeto, le porte dell'arte [...]".
Una lunga, vibrante ovazione corona il discorso del Conte Volpi. Quindi la sala si immerge nel buio e iniziano le proiezioni. Il programma s'apre con un film "Luce", dopo il quale lo schermo riceve l'atteso capolavoro americano di produzione "Paramount": Doctor Jekyll and Mr. Hyde, realizzato da Mamulian (La magnifica serata inaugurale all'Excelsior, «Gazzetta di Venezia», 7 agosto 1932, p. IV).
Il film ottiene buone recensioni, di cui segue qualche esempio:
"La trasformazione di Jekyll in Hyde avviene mediante giochi di ombre prima e poi mediante successive dissolvenze incrociate: mezzo tecnico questo, esclusivamente tecnico, da evitare semmai. Ecco perchè delle molte trasformazioni quella che preferiamo è la penultima, quando Jekyll è di fronte alla vetrata e la trasformazione avviene in campo lungo col personaggio rivolto dall'altra parte. L'insistere poi sul fenomeno dello sdoppiamento della personalità non giova alla realizzazione di Mamoulian, il quale piuttosto trova ottime ragioni artistiche in quegli episodi di secondo piano, dove all'espediente tecnico si sostituiscono tocchi sicuri provocati da una mentalità intelligente. Sono queste "trovate" che fanno apprezzare il film e ne elevano il tono. Vi si sente il Mamoulian di Vie della città che approfitta di tutti i mezzi e di tutti gli espedienti: il carrello è usatissimo; da rilevarne l'uso nella prima parte quando la descrizione degli avvenimenti esterni è fatta attraverso la personalità di Jekyll. In questa maniera, Mamoulian trova modo di ricorrere a delle trovate che traggono la loro origine quasi sempre dagli oggetti. Forse l'insistere su questo metodo nuoce talvolta, e d'altra parte fa anche pensare se non fosse conveniente realizzare tutto il film così, riducendo allora lo sdoppiamento della personalità ad uno sdoppiamento esclusivamente spirituale" («Gazzetta di Venezia», 7 agosto 1932).
"Rielaborando il soggetto, assimilandolo per trasfigurarlo nella espressione cinematografica, l'inscenatore lo ha colorito con una tavolozza allucinante. Il concetto non si afferra nello sviluppo. Si può afferrarlo, intenderlo. Ma è l'esecuzione, i mezzi che Mamoulian ha usato per raggiungerlo e dargli vigore che lasciano ben perplessi. La prima scena della trasfigurazione, all'inizio dell'esperimento, è possente. Nella vertigine, quella rievocazione di impressioni più recenti è di indimenticabile efficacia. Ma, successivamente, quel ripresentare quella maschera orrenda, quel farla centro di ogni quadro, motivo conduttore di ogni sviluppo, raggiunge solamente l'effetto di comunicare, con una impressione di incubo, anche l'inquieto, sottile senso di disgusto. La registrazione sonora e parlata non ci dice un gran che di eccezionale. Le voci sono ancora un po' vuote di corpo, le tonalità impostate su un fondo leggermente sordo" («Il Gazzettino», 7 agosto 1932).
"È stato per ventiquattr'ore sulle labbra di tutti. Rouben Mamoulian, celebre sin dal suo secondo film [...] prima di accingersi a un'operetta con Chevalier e la MacDonald si è cimentato con questo truce Dr. Jekyll e Mr. Hyde tratto da Stevenson. [...] Ma questo mostro è talmente mostruoso, con un cranio da gorilla, due buchi per narici, zanne scheggiate sporgenti da labbra fesse e rigonfie, le ombre di un ghigno bestiale sotto i cespugli delle sopracciglia, che dopo le prime apparizioni, invece di esasperare brividi inconfessabili, diventa un baubau discretamente grottesco, somministrato in un implacabile nitore fotografico che denuncerebbe qualsiasi truccatura. Quando un colpo di rivoltella ne ha segnato la fine e lo schermo è riapparso nel suo innocente e impassibile candore sono corsi naturalmente parecchi respiri di sollievo ma anche parecchie irriverenti risatine" (Mario Gromo, «La Stampa», 2 agosto 1932).
"Un po' pesante come soggetto – una vecchia storia di Stevenson, sopra uno sdoppiamento di persona ottenuto mediante un decotto – è nello stesso tempo pieno di spunti e di episodi ben resi, oltrechè ben interpretati. Il direttore ha trovato in Federico March un forte attore, che, con la scomposizione della sua figura nelle due personalità, con la meravigliosa mobilità dell'espressione, avvicina la sua arte a quella del grande Chaney" (V. Q., «Il Messaggero», 17 agosto 1932).
"Nel corso della serata ho sentito più di uno disapprovare il genere. È vero, non tutto forse è sano, in quest'ordine di emozioni che il film di orrore cerca di suscitare; ma poiché il cinematografo ci si è provato, e alcune delle opere del genere sono tra i modelli tecnicamente più avanzati e mirabolanti della produzione dell'annata, come poteva l'esposizione, che ne è lo specchio imparziale, non presentarceli? C'è un fascino dell'orrido, questo lo riconosceva anche Longino. Che se l'orrido del film di Mamoulian non è sempre di prima qualità, e nemmeno usato sempre con discrezione, pazienza; tanto lui riesce a portarvi dove vuole, cioè a farvi accapponare la pelle" (Filippo Sacchi, «Il Corriere della Sera», 9 agosto 1932).
In mancanza di una premiazione vera e propria, viene indetto un referendum fra il pubblico. Il Dottor Jekyll si aggiudica due categorie, quelle relative alle domande "In quale film avete trovato la fantasia più originale?" e "Qual è l'attore che vi è piaciuto di più?", per la quale risulta vincitore Friedrich March, nel ruolo del dottor Jekyll (cfr. «Gazzetta di Venezia», 24 agosto 1932). Il giornalista Giovannetti così commenta l'esito della votazione del pubblico:
"Qual è l'attore che vi è piaciuto di più? La folla ha risposto: F. March, l'interprete di Dr. Jekyll. E il giudizio è giusto ma soltanto da un punto di vista teatrale. E la colpa non è della folla ma del questionario del referendum, ancora troppo ispirato da quella vecchia mentalità teatrale e mondana, ch'è fuori posto nel cinema [...] In quale film avete trovato la fantasia più originale? Nel Dr. Jekyll ha risposto la folla, cogliendo, ancora una volta, nel segno. Fra i tentativi americani d'introdurre il sovrannaturale nel cinema, quello di Rouben Mamoulian in Dr. Jekyll è veramente il più originale. In questo film il sovrannaturale non rappresenta certo la parte migliore: ma tutto è animato da un'arte supremamente discreta e varia e potente anche se non sempre elevata. Il Dr. Jekyll è discutibile in qualche dettaglio: ma è indiscutibilmente originale nell'insieme" (Eugenio Giovannetti, Venezia metropoli di Cinelandia. I giudizi della folla, «Il Giornale d'Italia», 26 agosto, 1932).
Seguono alcune recensioni del film tratte dalle principali testate dell'epoca:
"[Greta Garbo] ha fatto scegliere dal direttore di produzione Walther Wanger il regista più alla moda: Rouben Mamoulian, che ove non fosse grande, almeno abilissimo, il più abile e raffinato regista di Hollywood: dal film teatrale (Applause) al film di gangsters (City Sheets), da quello a sensazione (Dr. Jekyll) alla cineoperetta (Love me tonight) al dramma (Song of songs), tutti i generi erano stati tentati da Mamoulian, ed in tutti aveva impressa una ben definità personalità; mancava soltanto il film storico [...] Del resto la pellicola è fatta appunto per lei (Greta Garbo, n.d.r.) che ha risposto in pieno alla direzione accorta di Mamoulian il quale non ha preteso dalla attrice l'impossibile; egli stesso non ha sopraffatto con la sua consueta tecnica allucinante e con eccessivi compiacimenti stilistici la recitazione della Garbo, la quale, per contro, ha mantenuto una sobrietà di espressioni che riescono, così misurate, ben più efficaci di atteggiamenti di cui la prima Garbo non andava esente. Eccettuate le due pellicole girate sotto Pabst e Sjöström, la Garbo non aveva avuto sino ad oggi un direttore che effettivamente intendesse ricavare da lei quanto, con la maggiore sobrietà esteriore possibile, potesse rendere. [...] Mamoulian si è sentito sufficientemente a suo agio nell'interpretazione dell'epoca – 1600 – un secolo che forse per la sua arte ha riflessi nella regia del georgiano; poiché l'illuminazione che costituisce una delle personali prerogative di Mamoulian ottiene particolari effetti negli scorci degli ambienti di stile barocco: per quanto qui, oltre all'essere la scenografia mantenuta in una rigidità di stile, Mamoulian non ha abusato delle sue preferenze e solo quando ha voluto creare un'atmosfera di tristezza e solitudine intorno alla figura di Christina ha proiettato sul suo volto la pallida luce di un candelabro, lasciando lo sfondo coperto da una vasta ombra" (Il caloroso successo del film "La Regina Cristina", «Gazzetta di Venezia», 29 agosto 1934, p. V).
"Non è soltanto Greta Garbo che domina il film. La personalità del regista si afferma e si impone con pari autorità. Il soggetto portava ad un parlato al cento per cento, poneva sul dialogo l'asse di sostegno. È un dialogo che deve rendere tutto un movimento intenso, che chiede l'ausilio del primo piano. Qui trionfa l'arte intelligente, fatta di sensibilità delicatissima, di Greta Garbo e basta da sola ad attanagliare l'attenzione, a comunicare potentemente con lo spettatore. Ma per quanto grande sia quest'arte, per quanto suggestiva la personalità della Garbo, non sarebbe da sola bastata, è ovvio, a creare l'opera compiuta, ben finita. Ecco Mamoulian al lavoro, ecco la magnificenza dello scenario, ecco scattare, al momento buono, il ritmo più serrato; i passaggi, i movimenti, abbandonare la parola, farsi vivi" («Il Gazzettino», 29 agosto 1934).
"Il Mamoulian ha profuso la sua abilità in questa che, per il giovane armeno, rivelatosi con Le vie della città, doveva essere il suo bastone da maresciallo. Non possiamo certo dire che La Regina Cristina sia il suo migliore film, anzi; ma aiutato dall'operatore William Daniels, che sempre fu accanto alla Garbo, è giunto a dare una certa unità ad un racconto che qua e là potrebbe apparire non poco arbitrario. Ma siamo soliti a queste licenze più o meno poetiche di fronte alla storia in questa voga di rievocazioni cinematografiche. Sono ormai peccati veniali. E sorvoliamo anche su certe preziosità, su certi concettini del dialogo. [...] Il film conta come spettacolo saliente, non alieno da effetti raggiunti con sottile sagacia e con una duttile astuzia, che giocano ora sul fastoso e sul patetico, ora sul melodrammatico e sul magniloquente; ennesima riprova dell'abilità del Mamoulian, un uomo che conosce il "mestiere" come pochi, e capace di passare con la maggiore disinvoltura dal dramma di gangsters all'operetta, dal dottor Jekyll alla Regina Cristina. Ma non ci dorremo di questa abilità. Anzi, per un film della Garbo è forse da augurarsi la presenza di un abile, magari, come in questo caso, di un abilissimo, anziché di un artista. L'interprete è di tale personalità prepotente, solita a vincere ogni battaglia, che è forse meglio che sia abbandonata alla sua arte, di questa sola debba conoscere i freni. L'attrice ancora una volta è stupenda. Malgrado ripieghi e arbitri della sceneggiatura, lo spettatore sarà pago soltanto al seguire il gioco di questa maschera fra quelle di John Gilbert, Lewis Stone, Jan Keith. Non avevo ancora veduto una Garbo così poco garbista" (Mauro Gromo, «La Stampa», 29 agosto 1934).
"E mediocre infine, malgrado la superba affermazione di Greta Garbo – nella luce vaneggiò l'ombra, ormai derelitta d'un John Gilbert presso che intontito – quella Regina Cristina che la Metro, sempre previdente, aveva fatto precedere da un cortometraggio dedicato all'Italia. Decisamente Mamoulian, dopo Le strade della città, non ci ha fatto più sentire né un accento proprio né una sillaba divinatrice. E questo film segna l'abdicazione sua e del povero Gilbert anziché quella della regina di Svezia narrata nella vicenda: ché mai la Garbo, neppure al tempo della Carne e il diavolo e di Anna Karenina, s'era più radiosamente incoronata" (Marco Ramperti, «L'illustrazione italiana», 9 settembre 1934).
Nel 1935 Mamuljan è presente con il film Becky Sharp alla III edizione della Mostra del Cinema. Il film è proiettato l'11 agosto 1935 nel giardino delle Fontane luminose dell'Excelsior, e si aggiudica, fra la miriade di medaglie e premi assegnati in quell'edizione, la Coppa della III Mostra internazionale d'arte cinematografica come miglior film a colori. Di fatto Becky Sharp è il primo lungometraggio della storia del cinema girato interamente in Technicolor. Il film ottiene recensioni discordanti:
"Senza saperlo il pubblico del Lido ieri sera ha votato. Il referendum era questo: colore no, colore si? Il pubblico ha risposto: colore si [...]. C'è un uomo che è, si può ben dire, il pittore di Becky Sharp: l'uomo che ha regolato tutto lo schema coloristico del film e che per questo ha avuto (anche se nessuno lo avrà particolarmente notato) il privilegio di mettere la sua firma avanti a quella dello stesso regista Mamoulian: il signor Robert Jones. Jones è stato quello che non solo ha fissato punto per punto se quel nastro doveva essere rosso o giallo, e quale gradazione di celeste doveva avere quella tappezzeria, e quale luce bisognava usare per illuminare in quel momento quel volto, ma è quello che ha diretto coloristicamente il montaggio, cioè ha deciso a che momento bisognava tagliare quei rossi e a che momento bisognava attaccare quei gialli, quanti secondi di tono freddo dovevano essere alternati in quella scena di tono caldo, e così di seguito. Ecco perchè, subito dopo il titolo, vedete comparire questa didascalia: Designed in colour by Robert Edmund Jones, ossia disegnato in colore da Robert Edmund Jones. Si profila col film a colori una nuova classe di creatore cinematografico, un'autorità altrettanto potente e decisiva del regista: il "pittore" del film. [...] In qualche punto, la preoccupazione dell'effetto li ha spinti a portare il loro mezzo fin dove è ancora immaturo giungere. Per esempio, nell'episodio centrale del ballo e della partenza per la battaglia che pure ha strappato più di un applauso al pubblico, quelle rapide sovrapposizioni di folla in corsa sono venute fuori impiastricciate e confuse. Nemmeno le dissolvenze sono a posto. Qui c'è tutta una nuova tecnica da fare. Dove il nuovo sistema mostra del progresso è nella fotografia del volto umano, e nel rendimento delle fisionomie. Senza dubbio la truccatura non è ancora equilibrata. Un eccesso di patinatura calda, di rosolatura sanguigna fa le facce congestionate e terrose. Questo può dare magari in certi casi un effetto, come in quei tipi corpulenti ed esuberanti di Joseph Sedley, di Pitt Crawley, o degli avventori della taverna che finiscono per avere delle maschere da bevitori di Franz Hals. Ma negli altri la cosa non è sempre gradevole. Cotesti ufficialetti ottocenteschi e innamorati hanno delle facce da bistecche, e le loro donnine romantiche sembrano tutte abbronzate come bathing girls. E allora dov'è il progresso? Il progresso è nel fatto che, forse per la prima volta, il colore non è più staccato dal viso, non è più una sovrapposizione posticcia che altera e distorce l'espressione fisica. Per me la prova del colore non è tanto nel fatto che si sia riusciti a riprodurre perfettamente un fiore o un mantello rosso che sventola quanto che una grande artista come Miriam Hopkins abbia potuto toccare indisturbata dal principio alla fine e nelle loro sfumature più sagaci e segrete tutti gli effetti di una interpretazione grandissima" (Filippo Sacchi, «Il Corriere della Sera», 13 agosto 1935).
"Il film è assai teatrale, risente dell'origine che s'è detto. Non un esterno, lunghe scene rotte da un montaggio quasi sempre duttile e scaltro, e sorrette da un gruppo di ottimi attori. [...] Quello che conta soltanto è il colore, è quest'ultima accuratissima e intelligente prova nella quale il Technicolor s'è cimentato. [...] Si sono raggiunte morbidezze, fluidità e trasparenze veramente sorprendenti, talvolta affascinanti. Sono toni sempre un po' falsi, anche nei loro istanti migliori; d'una falsità un po' caramellata e scenografica, che si distende come una lustra patina decorativa su ciò che dovrebbe essere emozione, umanità, poesia. (Negli istanti peggiori si cade persino nella decalcomania). Ma le risorse espressive ne sono innegabili. Non credo che tali risorse dovranno soprattutto contare su ulteriori progressi del sistema di ripresa. [...] Dalle truccature dei volti degli attori (anche qui le donne sono le favorite, specialmente le giovanissime) ai valori che può avere uno sfondo giocato su di una porpora anziché su di un cupo arancione; dall'apparenza di pastello che un colore può assumere pur che sia ammorbidito da una luce che non lo tocchi ma lo veli soltanto, alle preferenze da accordare a una determinata gamma di toni, è tutto un nuovo linguaggio che per ora è scheletricamente enunciato e che attende soltanto, da molta tenacia e da un infinito buon gusto, di essere esaurientemente articolato. Cadono anche le facili obbiezioni che si potevano muovere a quell'eresia estetica dei cosiddetti 'colori naturali'. Lo stesso Mamoulian ne ha sentito il pericolo [...] e ha dichiarato che questo dev'essere considerato come il primo di una serie di film 'dipinti'" (Mario Gromo, «La Stampa», 13 agosto 1935).
"Fra poco Mamoulian non sarà un nome familiare soltanto ai critici e agl'iniziati, ma nel gran mondo si nominerà Mamoulian come si nomina Patou. [...] In quanto al tradizionale duello fra Europa e America ahimè!, le sorbe ora sono tutte nostre. Perché dei film finora presentati gli unici che meritano la menzione onorevole sono Becky Sharp e I ragazzi della via Paal e tutti e due sono americani. Mentre a mantenere alto il prestigio europeo non v'è, finora, che il Figliol prodigo di Trenker. Sugli altri fronti silenzio. Che dire? Ci sarà la grossa sorpresa? Può darsi, ma è probabile che quest'anno gli americani si prenderanno la rivincita della figura piuttosto bruttina dell'anno scorso. Intanto Becky Sharp è una faccenda assai grossa e preoccupante perché dimostra che un cinematografo a colori ci può essere e ci sarà. Le scene della festa da ballo, con il panico improvviso che invade i saloni insieme all'improvvisa folata di vento che apre i balconi sul mare, sono scene raccontate si può dire dal colore e la fantasia galoppa insieme a tutte quelle splendide uniformi, a quei veli svolazzanti, a quelle tuniche, in groppa a quel gran vento soffiato dal mare. Colori fantastici ma non arbitrari: il vero romanzo dunque" (Sandro De Feo, Bilancio a metà strada, «Il Messaggero», 21 agosto 1935).
"Attesissimo per la rivoluzione del cinema a colori era Becky Sharp. Non è il caso ora di investire la questione estetica del colore, che tratterò in altra sede, ma piuttosto di rilevare il magnifico sforzo tecnico degli americani che con questo film ci dimostrano l'arricchimento prospettico, stereoscopico ed emotivo portato dal colore e la possibilità, quando il mezzo sia perfetto, di selezionare il colore in funzione espressiva. I toni rossi e blu di Jones sono splendidi ma ci rincresce che sia mantenuta forte la tinta del trucco sulla faccia degli attori che appaiono infuocati esageratamente oltre a mettere maggiormente in evidenza le differenze di luce nel paesaggio dal primo piano al piccolo campo" (Alberto Lattuada, Appunti, «Libro e Moschetto», 24 agosto 1935).
"Notevole Becky Sharp per il valore eccezionale della protagonista Miriam Hopkins oltre che per la colorazione del film, la quale pur lungi dal risolvere definitivamente il problema del cromatismo, presenta tuttavia una serie di magnifici quadri, che creano, con la preferenza della tinta calda, l'atmosfera pittoresca" (Elio Zorzi, «Illustrazione Italiana», 18 agosto 1935).
"Il regista, scaltro armeno, aveva puntato su carte sicure; gli interni, le scene e i costumi dell'Inghilterra ottocentesca, coi rossi mantelli e i pantaloni azzurri degli ufficiali, le gonne bianche e gli scialli verdi delle dame, i velluti, i tappeti delle sale, avevano agevolato l'esordio, Mamoulian e Jones, il tecnico del colore, si sbizzarrivano nel dosare gli effetti, nel ricercare gli ostacoli per superarli, con la grazia leggera dei cavalieri in caccia di volpi. Miriam Hopkins, bravissima, e i suoi ottimi compagni passavano di tinta in tinta come camaleonti. Mamoulian, calligrafo del cinematografo, aveva narrato, sì, con eleganza e sapore, ma senza nerbo, oziosamente. Stilista di gusto e di raffinate esperienze, aveva trasformato il romanzo in bei frammenti e capitoli. Per cercare la miniatura, il bozzetto, il pezzo raro, egli aveva smarrito la via del film ed era incappato nel teatro e nella decorazione. Quadri su quadri; e accanto ai belli e di prezzo – Miriam ed il tappeto, ombra di Napoleone, mantelli rossi sotto il fanale blu – c'erano, come succede, le croste da pochi soldi; i cosiddetti esterni, cioè interni truccati con cieli di notte pesti e macchiati come la carta carbone, e volti illividiti da luci sbieche" (Giorgio Vecchietti, «Scenario», settembre 1935).
"Si è naturalmente indotti a ricercare i nuovi contributi apportati dal colore: non è questo però l'esperimento in cui il colore assume una parte tutta speciale; ci si sarebbe aspettati di trovare tra Mamoulian e il colore lo stesso rapporto che il regista armeno aveva determinato tra se stesso e il sonoro nelle Vie della città. Ma non è così: Becky Sharp è nei riguardi del colore solamente un elegantissimo film provvisto di quella eleganza che Mamoulian già aveva applicato ad Amami stanotte. [...] Miriam Hopkins è al centro del racconto; predomina su tutti gli altri, mostra appieno le sue qualità e certo queste apparirebbero ancor di più se il suo volto passando dal controluce all'illuminazione violenta dei riflettori non mutasse decisamente colore, da rosa in ocra: in questo mutamento si vuol muovere l'appunto più sostanziale al colore in questo film; è un appunto generico che vale sia per Becky Sharp che per ogni altra pellicola a colori poichè per il resto le tonalità coloristiche sono del tutto raggiunte" (Francesco Pasinetti, «Gazzetta di Venezia», 12 agosto 1935).
"Becky Sharp offusca tutti gli altri [film] per la meravigliosa luminosità delle immagini colorate, oltre che per il valore intrinseco d'opera cinematografica di primissimo ordine. Non v'ha dubbio che la cinematografia a colori sta facendo passi da gigante. Qualcuno ha detto che fra due anni tutti i film saranno a colori" (Elio Zorzi, Bilancio consuntivo della III Mostra di Arte Cinematografica, «Le tre Venezie», settembre 1935, p. 481).
"Ruben Mamoulian era certo il regista più adatto a tessere narrativamente una specie di riassunto delle odierne possibilità del Technicolor. Egli dev'essere uomo prodigiosamente intelligente, quanto capace di premeditazione e di calcolo. Niente slanci lirici: non è il tipo dell'autore che si commuova di fronte alle proprie scoperte. Si serve ugualmente dell'azione e della notazione psicologica per i propri scopi costruttivi. Le "maniere" troppo unilaterali dei vari creatori (tipo Pabst o Sternberg), più inventivi ma meno equilibrati, sono da lui raccolte ed amministrate con sagacia [...] Con Becky Sharp Mamoulian ha composto il mosaico dedicato al colore. Se la scelta del soggetto risulta in certo modo retorica, e il colore non ha che una funzione illustrativa, in compenso tutti i progressi tecnici sono stati messi a partito, col risultato di svincolare il nuovo mezzo e da permettergli ormai tutte le forme in uso fino a questo momento" (Mattia Pinoli, Cronache dei film nuovi: Becky Sharp, «Cinema», 25 novembre 1936, n. 10, pp. 400-401).
Nonostante l'accoglienza calorosa con cui i film di Mamuljan vengono accolti a Venezia, il regista non è presente alle prime tre edizioni della Mostra. Nell'ottobre del 1937 è invece in visita ufficiale a Roma, su invito del Governo fascista, e viene accolto con tutti i fasti a Cinecittà dai vertici dell'industria cinematografica italiana dell'epoca, fra cui Luigi Freddi e Carlo Roncoroni. In un'intervista a Mamuljan, il critico cinematografico Francesco Pasinetti riporta alcune sue parole:
"Com'è bello il saluto romano. L'uomo di oggi sta di solito curvo, cammina trasandato, ed è, nelle normali e abitudinarie posizioni, una figura insignificante! Ma se saluta romanamente, così, assume d'improvviso dignità e importanza; diventa qualcuno. E riprendendo a camminare, continuava a manifestare il suo entusiasmo per la tradizione artistica italiana. In Italia gli piacerebbe realizzare un film, negli stabilimenti di Cinecittà che egli dichiara "eccellenti", o mettere in scena uno spettacolo teatrale: a Firenze, forse, in un prossimo Maggio: As You Like it di Shakespeare" (Francesco Pasinetti, Conversazioni con Mamoulian «Cinema», 1937, n. 32, pp. 266-267).
Il soggiorno di Mamuljan nell'Italia fascista suscita stupore e polemiche in America (cfr. «Daily Variety», 13 agosto 1938, p. 6), anche perché il suo ultimo film High wide and handsome (Sorgenti d'oro, 1937), trattava di antifascismo. In effetti, a partire dal 1936, i film di Mamuljan non vengono più presentati a Venezia, e nel 1939 il film sopraccitato viene cancellato dalla programmazione all'ultimo momento:
"Su un programma d'anticipo che avevo letto, erano segnati tra l'altro Notti messicane [The Gay Desperado], High, Wide and Handsome, Dreaming Rips. Due film di Mamoulian e uno di Czinner con la Bergner. Un bel momento questi film scomparvero. Ne domandai allo zelante segretario della Mostra il quale cambiò discorso. Misteri. Seppi poi che il giorno dopo sarebbero stati proiettati altri due film, segnati nel programma fuori concorso" (Francesco Pasinetti, Commenti e critiche, «Il Meridiano di Roma», 12 settembre 1939).
In un'intervista radiofonica Mamuljan rilascia questa dichiarazione:
"Ho visitato in modo particolare tre città: Venezia, Firenze e Roma. Venezia mi ha complètement enchanté... letteralmente rapito. La bellezza di questa città unica al mondo mi sembra esser quella d'una bella donna. I merletti di pietra dei palazzi, delicati come tele di ragno, han quasi la stessa natura degli zendali che le veneziane portano sulle spalle. Firenze all'incontro m'ha colpito per la sua maschiezza. Quel bijou du Moyen Age et de la Renaissance. Quantunque la si chiami Città del Fiore, Città del Giglio, Firenze è piuttosto un fiore di marmo poderoso ed impressionante. [... su Roma] Qui tutte le vie dell'arte, per così dire, s'incontrano. Quanta ricchezza! A Roma voi avete tutto: l'antico, il classico, il rinascimento, il barocco e infine il moderno. Ma tutto ciò non dà mai l'impressione di un'accozzaglia confusa: piuttosto si risolve in una strana e stupefacente armonia" (Disco di conversazione con Mamoulian, «Cinema», 1937, n. 32, p. 289).
Ruben Mamulian, Sotto il segno di Zorro. Usa 1940 Tyrone Power e Linda Darnell
http://www.noisylesec.fr/?pid=ad9c5ecdd3c32de2188f7e8545919329559e11b8&date=2009-2-08
Greta Garbo in una scena di La regina Cristina di R. Mamulian (1933), presentato alla II Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Manifesto del film Il dottor Jekyll, presentato alla I Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.