Russi in Italia

Le esposizioni d’arte russa a Roma negli anni ‘40


Due importanti gallerie romane presentano nel secondo dopoguerra in Italia gli artisti russi, due poli d’attrazione delle avanguardie pittoriche: la galleria L’Obelisco in via Sistina e la Galleria della Cometa in piazza d’Aracoeli.

La galleria L’Obelisco, inaugurata nell’autunno 1946 con un’esposizione dedicata a Giorgio Morandi, nasce all’indomani della liberazione ad opera del collezionista e appassionato d’arte Gaspero Del Corso e della moglie Irene Brin, espressione di un giornalismo colto ed eclettico, e svolge nel tempo un’attività serrata e sperimentale per promuovere la ricerca sull’arte contemporanea, portando in Italia affermati artisti internazionali. Grazie ai diversi interessi e all’intuito artistico dei due proprietari, la galleria sostiene l’arte contemporanea presso intenditori e critici, innovando radicalmente le modalità espositive e promozionali dell’arte moderna. Per la prima volta appaiono nella capitale le opere di importanti artisti stranieri, tenuti alla larga negli anni del fascismo (Dalì, Magritte, Tanguy, Rauschenberg, Calder, Picasso, Moore, Dubuffet). La galleria è anche trampolino di lancio per artisti italiani (Fontana, Burri, Afro, Vespignani) e promotrice della conoscenza dell’arte italiana all’estero.

Il primo russo, di cui L’Obelisco allestisce una personale nel 1949 (prefazione di Corrado Cagli), è Evgenij Berman, pittore e scenografo affermatosi a Parigi e New York negli anni dell’emigrazione; un’artista affascinato dall’Italia che visita più volte dal 1922 e dall’arte del Rinascimento, fonte continua d’ispirazione per Memorie d’Italia (1925), ciclo di dipinti fantasmagorici, abitati da inquietanti piramidi, obelischi, antiche vestigia (V. Crespi Morbio, Eugene Berman alla Scala, Milano 2016, p. 14). La sua pittura risente delle suggestioni della pittura veneta (Carpaccio, Veronese, Tiepolo), trasfigurata in linee surreali di segno francese. Dal 1940, essendo ebreo, l’artista si stabilisce negli Stati Uniti, come scenografo avvia una pluriennale collaborazione con George Balanchine (è lo scenografo del Ballet imperial di Čajkovskij, presentato al Teatro alla Scala nel 1952); frequenta Stravinskij e gli esuli russi, ritrova gli amici del periodo francese (Ernst, Chagall, Breton, Léger, Zadkin, Čeliščev), con loro partecipa alla mostra Artists in Exile alla Pierre Matisse Gallery (New York, marzo 1942); nel 1947 il Moma ospita la mostra The Theatre of Eugene Berman; nel 1951 inizia a collaborare con il Metropolitan Opera di New York e realizza scene e costumi per le opere di Verdi (Rigoletto, 1951; La forza del destino, 1952), Rossini (Il barbiere di Siviglia, 1954) e Mozart (Don Giovanni, 1957).

Negli anni Cinquanta l’artista dedica all’Italia e alle città italiane due volumi di disegni: Capricci italiani (1951) e Imaginary Promenades in Italy (1956); del primo scrive Raffaele Carrieri: “i disegni italiani di Berman, specie quelli ispirati alle nostre architetture barocche, hanno la medesima sussurrante follia di certe fughe e sonate di Mozart ma pure la stessa grazia. Berman sparge le sue gocce di flauto sul bruciato delle rovine”; il secondo è una vivida testimonianza del fascino che l’Italia esercita sull’artista, per il quale le architetture del passato diventano chimeriche proiezioni della mente, immagini dell’altrove (R. Carrieri, I capricci italiani di Eugenio Berman, “Arti e costume” 1951, 1, p. 79).

Nel 1956 Berman si stabilisce definitivamente a Roma, dove trascorre gli ultimi anni a Palazzo Doria Pamphilj; qui riprende i contatti con Stravinskij e in occasione della mostra di Vera Stravinskaja all’Obelisco scrive la presentazione al catalogo (1955); nel 1956 collabora con la Piccola Scala per Così fan tutte di Mozart (direttore Guido Cantelli, nella parte di Fiordiligi Elisabeth Schwarzkopf). A Roma frequenta la comunità degli artisti americani, inizia a raccogliere una collezione di oggetti e opere d’arte di varie epoche e provenienze (il regista John Huston cerca invano di farsi vendere i suoi reperti etruschi), si dedica ad un’intensa attività di illustratore. Nel 1959 dopo un decennio di scarsa attività espositiva, riprende ad esporre con regolare intensità in molte città italiane: tra le mostre romane si ricordano le due personali del giugno 1959 all’Obelisco e alla Galleria San Marco; nel maggio 1962 alla Galleria 88, nel settembre 1969 alla Galleria La Medusa (catalogo Eugene Berman: le meduse di Leptis Magna e dieci paesaggi italiani, a cura di G. Carandente), nel novembre 1977 al Centro La Barcaccia (catalogo, a cura di F. Bellonzi), nel settembre-ottobre 1978 alla Galleria Il disegno (Eugene Berman: disegni, gouaches, tempere).

La sua poetica, accennata nella prefazione a Imaginary Promenades in Italy, e i suoi quadri evocano un repertorio di figure e luoghi chimerici, vi si percepisce quasi un senso di straniamento: per la doppia emigrazione? per lo status di esule ebreo deraciné? Come pittore coltissimo, Berman attraversa vari ismi novecenteschi (la metafisica di De Chirico, la visione surrealista), sperimenta stili diversi e assorbe più suggestioni (da Pisanello a Dürer), per trasmettere nelle sue tele un ininterrotto viaggio introspettivo tra realtà e fantasia, mentre nelle realizzazioni scenografiche prevale il culto dell’antichità classica, la lezione di Scamozzi e della sua prospettiva.

L’altro artista russo, presentato per la prima volta in Italia alla galleria L’Obelisco il 15 aprile 1950, è Pavel Čeliščev, pittore, grafico e scenografo, che dopo l’esordio in Russia (negli atelier di Aleksandra Ėkster e Adol’f Mil’man a Kiev) percorre un lungo itinerario artistico che gli porterà la fama: nel 1920 emigra, nel 1921-1922 risiede a Berlino, dove collabora come scenografo con il Teatro Romantico Russo di Boris Romanov, il teatro di miniature “L’uccellino azzurro” (Sinjaja ptica) di Jaša Južnyj, il cabaret “Le maschere” (Maski), nel 1923 trasmigra a Parigi: qui fonda nel 1926 insieme a Christian Bérard, Evgenij e Leonid Berman il gruppo dei “neoromantici”, artefici di una pittura onirica, affine al surrealismo, infine dal 1934 si stabilisce a New-York.
Il riconoscimento della sua opera arriva sin dalle prime ricerche pittoriche degli anni parigini, segnate da tratti surreali e visionari, per affermarsi incontrastato nel periodo americano, quando l’artista crea le sue tele ‘anatomiche’ – trasparenti, irreali e scarnificate teste dai muscoli e nervi visibili, originali paesaggi interiori, come li definisce lui stesso.

All’origine di molte soluzioni artistiche di Čeliščev è il suo rapporto con l’Italia, iniziato sin dal primo viaggio negli anni Trenta, quando si appassiona all’opera di Giotto, Beato Angelico e Paolo Uccello, ma studia soprattutto i lavori del matematico Luca Pacioli, in particolare il trattato De divina proportione (1497). Illustrato dai celebri poliedri di Leonardo, il trattato ha goduto di una straordinaria fortuna e esercitato un indiscusso influsso sulle scienze e le arti dell’umanesimo; Čeliščev sembra averne assorbito i nuclei fondanti che insieme alla lettura della Divina Commedia gettano in lui i germi di tele, realizzate a New York, quali Phenomène (1936-1938), prima parte del trittico Inferno-Purgatorio-Paradiso, che sperò invano di completare negli anni romani. Guardando le tele di Čeliščev, il pensiero va alla suggestione dei codici leonardeschi, al trattato De humana physiognomonia di Giambattista Della Porta, alle pagine illustrate di antichi volumi d’astronomia o anatomia.

Della mostra all’Obelisco scrive Bianca Paulucci su “Il Quotidiano” del 23 aprile 1950, sottolineando la ricerca ossessiva del pittore volta a rendere ciò è nascosto nell’uomo attraverso “il percorso delle vene e delle arterie, i meandri tra le ossa e le cartilagini”. Su questa idea fissa del pittore insiste anche Romeo Lucchesi sulla “Fiera letteraria” del 16 aprile 1950, dopo averne tratteggiato un breve excursus biografico e le realizzazioni in Germania, Francia e America:

Con questi disegni egli afferma che la forma esteriore non è sufficiente, che bisogna situare la forma nello spazio, che esiste l’aspetto metaforico delle forme, che bisogna tentare di realizzare una forma totale, completa, la quale comprenda tutti gli aspetti di un oggetto, che esiste una prospettiva sferica, che la linea sola crea la forma, il volume, lo spazio, la luce esteriore e interiore.

Ricorrendo all’uso della tempera grassa e a un senso molto misurato della composizione, il pittore rende innumerevoli gamme di luce solare, lunare o artificiale: “il suo Capriccio romano (che ricorda il Magnasco dal buio fondo scuro) è una composizione armonica di varie chiese romane a cui si alternano vari obelischi. I paramenti rossi e viola sulle facciate delle chiese ravvivano il buio sfondo quasi infernale”. I commenti a questa prima mostra di Čeliščev sono ancora incerti, la critica italiana prova difficoltà a definire la sua opera.

Dopo l’esordio alla galleria L’Obelisco Čeliščev espone nel maggio 1950 alla Galleria della Cometa, che la collezionista e mecenate Anna Letizia Pecci Blunt, discendente di papa Leone XIII (l’emblema scelto, la Cometa, era appunto l’insegna araldica del papa), aveva inaugurato al pianterreno di Palazzo Malatesta nell’aprile 1935 – alla presenza di Giuseppe Bottai in rappresentanza del governo – con una mostra di disegni di Corrado Cagli.

Anna Letizia Pecci (1885–1971), figlia di Camillo Pecci, capo della Guardia Nobile pontificia, e di una nobildonna spagnola, aveva frequentato a Parigi gli ambienti intellettuali, era stata amica di Braque e Cocteau, nel 1919 aveva sposato il banchiere newyorkese Cecil Charles Blunt, proprietario di una ricca collezione di pittura francese dell’Ottocento; il salotto parigino dei Pecci Blunt era frequentato da Dalì, Valery, Claudel e altri. Nel 1929 i coniugi avevano acquistato il quattrocentesco Palazzo Malatesta in Piazza d’Aracoeli, trasformandolo in sede di importanti eventi culturali, quali i Concerti di primavera, organizzati da Goffredo Petrassi, Vittorio Rieti e Mario Labroca per presentare la musica moderna (vi ospitano Stravinskij, Poulenc, Honegger, Milhaud, Sauguet, Auric); nel tempo ai concerti si erano alternate le mostre d’arte e le conferenze di scrittori e saggisti famosi (tra gli altri Alvaro, Guttuso, Casella, Cagli, Margherita Sarfatti, Sibilla Aleramo). Negli anni Trenta l’attività della galleria si era rivolta anche alla promozione dell’arte italiana a New York e Parigi, in accordo con il Ministero della Cultura Popolare.

Luogo d’incontro del tonalismo romano, la Cometa (due piccole sale dalle pareti rivestite di juta giallognola con pavimenti in linoleum verde oliva cupo) era diventata ben presto il trampolino di lancio di Fausto Pirandello, Afro, Mirko Basaldella, Pericle Fazzini, Giuseppe Capogrossi e molti altri, che venivano presentati ai visitatori da scrittori amici della proprietaria (Bontempelli, Ungaretti, Alvaro, De Chirico, Savinio, Barilli, Moravia). Un’acrimoniosa campagna giornalistica, condotta nel 1937 dal direttore del quotidiano “Il Tevere” Telesio Interlandi, espressione del rancore antisemita e antinternazionalista della più retriva destra fascista, aveva così amareggiato la contessa Pecci Blunt da suggerirle di trasferirsi a New York, dove aveva inaugurato nello stesso anno una succursale della Galleria della Cometa (la prima mostra è un’antologica di pittura italiana, cui seguono le personali di Cagli, Mirko, Carrà, De Pisis, Severini).

L’attività espositiva della galleria a Roma riprende solo nel dopoguerra nel 1947 (Čeliščev è tra i primi ospiti), quando Anna Letizia Pecci Blunt rientra in Italia e con il consueto entusiasmo riannoda i fili della sua pluriennale opera culturale. Come ricorda Alfredo Mezio nella recensione su “Il Mondo”, la mostra di Čeliščev è preceduta da un fastoso ricevimento in casa Pecci Blunt che ricordava gli anni d’anteguerra, quando il palazzo si apriva in onore di famosi letterati francesi di passaggio nella capitale e ospitava i più bei nomi dell’aristocrazia e cultura romana. Mentore della mostra di Čeliščev è Cagli che, affascinato dallo studio dell’arte quattrocentesca, in quegli anni predicava un totale rinnovamento della pittura, “nella quale Piero della Francesca e Poliziano s’incontravano con Einstein e la psicologia di Jung nel mondo delle idee pure, della geometria e della matematica”. L’apparato mondano che circonda la mostra di Čeliščev rivela la mano di quel formidabile regista che è Corrado Cagli. Nella recensione Mezio riporta anche quanto Čeliščev gli spiega delle proprie ricerche e delle tele anatomiche presentate:

Il mio assunto è inserire la nozione di tempo nella pittura. Cerco di creare una rappresentazione a più di tre dimensioni, e il mio viaggio in Italia è un omaggio al paese in cui questi problemi sono nati e dove sono sempre d’attualità. Cezanne ha concepito un’arte costruita su formule geometriche che, per il suo tempo, potevano spiegarsi come dei richiami alle formule che gli italiani erano stati i primi ad enunciare col trattato sulla prospettiva di fra Luca da Borgo, con Leonardo, Piero della Francesca e Raffaello (A. Mezio, La pittura e i teologi, “Il Mondo”, 13 maggio 1950).

Nel 1952 Čeliščev si trasferisce in Italia con il suo compagno, il poeta surrealista e fotografo Charles Henry Ford (1908–2002) e si stabilisce vicino Roma (prima a Grottaferrata, poi a Frascati), dove continua intensamente a dipingere ed animare il panorama espositivo. Gli anni romani di Čeliščev, pur nell’isolamento della residenza fuori città voluto dal pittore per lavorare in serenità, sono ricchi di contatti. A Roma ritrova l’amico degli anni parigini Evgenij Berman, conosce grazie a Fabrizio Clerici Ol’ga Resnevič Signorelli, che lo introduce tra le sue amicizie (il regista Pëtr Šarov, il coreografo Aurel Milloss, Dimitrij Ivanov) e gli è vicina nell’ultimo periodo di vita.

Nell’estate 1954 l’artista si reca a Parigi per una mostra alla galleria Rive gauche, poi in autunno a Londra, dove espone alla galleria Hanover (dal 26 ottobre alla fine di novembre), quindi rientra in Italia. Nel marzo 1955 la galleria L’Obelisco organizza una sua importante personale, di cui scrive la presentazione nel catalogo il filosofo francese Gaston Bachelard, affascinato dalla pittura di Čeliščev e dalla geometria delle sue forme (“il pittore ci offre oggetti trasparenti d’interne geometrie”), dall’intersecarsi delle linee che irradiano energia, soprattutto dalla sua ricerca colorica:

In Tchelitchew è il colore che finemente mette in azione il mondo, è lui che racchiude il segreto degli interessi dinamici. […] Mi piace meditare sull’immaginazione materiale dei pittori, sull’immaginazione che necessita di figurare profondità nella sostanza. Per un autentico artista il colore non è un fenomeno di superficie. Esso è presente in ogni profondità. I colori gareggiano tra loro per figurare, per uscire dalle tenebre e portare cosi testimonianza dell’essere segreto delle cose […] Le tele di Tchelitchew sono in qualche modo degli oggetti cosmologici, germi per mondi individualizzati. Vi è una specie di risonanza che parte dall’oggetto reso dinamico fino a un mondo evocato. Gli oggetti fatti dinamici dal pittore aprono prospettive che sono un preciso programma di movimento. Sembra che Tchelitchew abbia trovato il segreto di una sottile sintonia delle forme, del colore e del movimento (G. Bachelard, Pavel Tchelitchew. Catalogo della mostra alla Galleria dell’Obelisco, Roma 1955, pp. 5-6).

La stessa mostra dell’Obelisco è presentata il 1 aprile 1955 anche a Milano alla Galleria del Naviglio (via Manzoni, 45), fondata nel 1946 dal collezionista veneto Carlo Cardazzo, che tra le prime a Milano s’interessò alle avanguardie straniere, organizzando esposizioni di Calder, Pollock, Twombly, Poliakoff, Kandinsky, Mirò, Schwitters, Matta e molti altri; qui nel 1951 era nato per iniziativa di Lucio Fontana il Movimento dello Spazialismo. Nel catalogo della mostra di Čeliščev viene ripreso il saggio di Bachelard.

Il 22 novembre 1955 si apre al Palazzo delle Esposizioni la VII Quadriennale nazionale d’arte di Roma, che nell’arco di sei mesi espone oltre 1000 artisti e diverse retrospettive, tra cui la mostra storica Antologia dell’arte italiana dal 1910 al 1930. Sullo sfondo di un animato dibattito tra artisti figurativi e non, sono presentate al pubblico per la prima volta le tele lacerate di Alberto Burri, i concetti spaziali di Lucio Fontana, le opere legate all’astrattismo del Gruppo degli Otto (Vedova, Turcato, Afro, Birolli, ecc.). Dopo la visita Čeliščev ne scrive stravolto a Olga Signorelli in dicembre: “quando vedi quei chilometri di urlanti enormi terribili tele vuote (la quadriennale), desideri solo fuggire in capo al mondo e non guardare più nulla”. Le ultime lettere dell’artista contengono solo notizie della malattia che lo porterà alla morte: costretto spesso a letto, debilitato dagli antibiotici, progetta di tornare in America, ma non ne ha le forze. Muore dopo tre mesi, lasciando incompiuto il grande trittico Inferno-Purgatorio-Paradiso.

Come testimoniano le esposizioni, le cronache giornalistiche e le corrispondenze, in questi anni due mondi geograficamente distanti come l’Italia e la Russia s’intersecano e si confrontano in un dialogo ininterrotto di riscoperta della tradizione, di ricerca e di innovazione. Pur conservando tracce degli ismi europei appresi negli anni di studio, gli artisti emigrati che operano in Italia sperimentano nuovi linguaggi pittorici, in cui fondono temi e caratteri precipui del mondo russo (la tonalità cromatica nordica in Aleksej Isupov o Vadim Falileev; i temi religiosi in Ekaterina Rogal’-Kačura; il ricordo dell’architettura moscovita in Rimma e Leonid Brailovskie) con la tecnica dei maestri italiani (gli echi della pittura seicentesca in Grigorij Šiltjan, dell’impressionismo in Ivan Karpov; gli scorci di paesaggi italiani in Pëtr Bezrodnyj o Konstantin Gorbatov). Emergono dal contesto per rigore creativo e tecnica pittorica le fantasmagoriche composizioni di Evgenij Berman, le scarnificate tele ‘anatomiche’ di Pavel Čeliščev, i ‘paesaggi architettonici’ di Mstislav Dobužinskij, Georgij Lukomskij e Andrej Beloborodov, segnati da una visionaria lettura delle vestigia del passato italiano.

 

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